Giorgio Morandi
Gli acquarelli di Morandi
Jean Leymarie
Se i dipinti e le incisioni di Morandi non cessano di essere analizzati nella loro completezza e specificità e nei loro reciproci legami, i commoventi disegni a matita e i semplici acquarelli non hanno ancora suscitato quella particolare curiosità che richiedono. Senza dubbio i critici hanno tutte le ragioni di esitare davanti a questo universo intimo e supremo in cui non penetra più la parola e regna solo, in penombra e in segreto, il gusto geloso degli amatori. E' dunque il caso di salutare come un avvenimento il fatto che, nella sua città natale e grazie al devoto concorso delle sue sorelle, una prima mostra significativa sia interamente consacrata agli acquarelli, in parte inediti, del maestro di Bologna. Scrivo con trepidazione queste poche righe, espressamente richiestemi, nell' attesa muta di contemplare sul posto questa raccolta e prendere allora la decisione di rischiare forse un giorno un approccio reale. E penso alla passeggiata nostalgica che mi condurrà, nella dolce luce d'ottobre, attraverso vie porticate e memorie affioranti, dalla galleria nel cuore della città dove saranno presentati gli acquarelli fino allo studio intatto di via Fondazza, nel tranquillo e vecchio quartiere degli artigiani . Si sta preparando, dopo l'inventario grafico, il catalogo completo dei dipinti. Bisognerà poi numerare gli acquarelli e situarli nel corso dell'opera . Si Possono già fare alcune constatazioni . L'attività dell'incisore, che risale al 1912 e giunge fino al 1961, si concentra essenzialmente attorno al periodo della maturità. Gli acquarelli appaiono prestissimo e si succedono sporadicamente; ma , per motivi di facile comprensione legati alla natura stessa della loro tecnica e alle loro caratteristiche estetiche, essi si moltiplicano e fioriscono sopratutto durante gli ultimi anni, al momento giusto in cui cessano le incisioni. Con rare eccezioni, i disegni a matita, anche se acquistano ai nostri occhi un valore assoluto, sono punti base che preparano i dipinti o le acqueforti, di cui rivelano il processo creativo . Al contrario, gli acquarelli hanno vita autonoma, e se talvolta lo stesso motivo si ritrova anche nei quadri , la maniera interpretativa varia nei due casi, tragica sulla tela , serena sulla carta.
Aria di Daria - Mario Ceroli - 1968
La gaia scienza di Ceroli
Qua
nun se n' esce: o semo giacubbini, o credemo a la legge der Signore. - G.G.
Belli
Il metodo di Ceroli è una “gaia scienza”, l’arte di utilizzare un patrimonio di cultura individuale e sociale per modellare il mondo dell’uomo in armonia con i suoi istinti vitali; è, nel senso nietzschano del termine, un’arte “orgogliosa”, in lotta contro tutte le pulsioni di morte. Secondo un motto citato da Nietzsche, “Lo spirito orgoglioso, il pavone e il cavallo sono i tre più orgogliosi animali del mondo”. Il cavallo è una delle prime immagini di Ceroli, che egli ha portato anche sulle scene del Riccardo III per offrire un supporto sagomato e irreale alla tagliente violenza del personaggio shakespeariano (come a un Gattamelata o a un Colleoni costretti a muoversi fra l’attrezzeria di una sala di giochi); e se fra tutti gli animali, fiori e oggetti che Ceroli si è divertito a rifare in legno manca ancora il pavone ci sono però le ninfee con la loro espansa tranquillità senza colori, le farfalle ingrandite in una immobilità plastica e antiornamentale, gli aquiloni a cui il legno conferisce evidenza e solidità senza togliere leggerezza; ci sono infine le ali di Icaro, che le complesse articolazioni fra le ossature e il fasciame trasformano in una leonardesca macchina per volare. Dello “spirito orgoglioso” Ceroli ha tutta la malizia, la leggerezza e la fluidità necessarie, che — secondo Nietzsche — sono doti proprie degli artisti in quanto consapevoli fabbricatori della menzogna “e nasconditori della natura”. E’ ancora Nietzsche che parla per lui: “ci occorre tutta l’arte petulante, fluttuante, danzante, schernitrice, fanciullesca e beata per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostro ideale esige da noi” (La gaia scienza, 107). Possiamo approfondire il discorso. La “gaia scienza” di Ceroli e la “sua libertà sopra le cose” sono una definizione del classico, dello “spirito apollineo”, che strappa l’uomo al suo sogno di annullamento orgiastico, alla sua oscura volontà di regressione, trasformando l’angoscia in bellezza, che è poi un’anticipazione di futuro o — come diceva Stendhal — une promesse de bonheur, un mito di libertà e di felicità dominata. Da molte parti si è insistito sull’umanesimo e sul rinascimentalismo di Ceroli. Il rifiuto di ogni assolutismo estetico — questo estremo rifugio della teologia — e la sua traduzione in un radicale atteggiamento antropologico, ne sono il fondamento costitutivo. Nel mondo di Ceroli la centralità dell’umano è un fatto indiscutibile. A tale riguardo non ha importanza che l’uomo sia ridotto contraddittoriamente a un’ombra plastica, a una sagoma ritagliata su di una grezza tavola d’abete. Resta che l’architettura di questo mondo dipende ancora, come per Michelangelo, dalle membra dell’uomo. E se l’uomo manca, è comunque presente il suo equivalente geometrico, l’ astratta figurazione del rapporto proporzionale fra gli elementi del microcosmo: il cubo, la sfera, la piramide, la colonna. Che poi l’ astrazione dei rapporti si materializzi in cassette, casse, imballaggi, le cui strutture di prodotti artigianali elegantemente disinvolti sono esibite nella nudità del materiale povero, in chiodi, giunte, incastri, cardini e cerniere; che in sostanza la forma geometrica si esprima nell’artificio manuale della “fabbrica” con una immediatezza che ne rende impossibile la deduzione da un modello ideale, archetipo o progetto; ciò non contraddice, anzi conferma, il carattere fabrile di questo umanesimo anticontemplativo e pratico.
Arte Povera
Arte Povera
« Il problema del mondo è quello di unificarsi. Noi siamo sempre divisi, la nostra mente è divisa dal nostro corpo, il lavoro dal nostro amore, la nostra passione dal nostro intelletto, lo stato dalle masse, la chiesa dallo spirito, niente si accorda insieme, e noi siamo sempre e totalmente in uno stato di guerra, insomma ogni cosa è in guerra con le altre cose; il nostro compito è allora di unificare tutte queste cose ».
Living Theatre (da un’intervista apparsa sul « Verri », 25, 1968).
Pensare e fissare, percepire e presentare, sentire ed esaurire la sensazione in un’immagine, in un’azione, in un oggétto, arte e vita, un procedere per binari paralleli che aspira al suo punto all’infinito. Da un lato un operare artistico che conduce l’attenzione sulle relazioni tra i vari linguaggi, si lega al « diffusionismo » linguistico coll’assunzione (sorta di « cleptomania » culturale) delle strutture filmiche, architettoniche, psicologiche e teatrali, segue la storia e si attiene ad un programma, dall’altro lo svolgersi asistematico del vivere. Nel “vuoto” esistente tra arte e vita, il libero progettarsi dell’uomo, il legarsi, creativo, al ciclo evolutivo della vita (siamo all’osmosi dei due momenti) per una affermazione del presente e del contingente. Là un’arte complessa, che mantiene in vita la « correptio » del mondo, col tentativo di conservare l’uomo ben armato di fronte alla natura ». Qui un’arte povera, impegnata con l’evento mentale e comportamentistico, con la contingenza, con l’astorico, con la concezione antropologica, la intenzione di gettare alle ortiche ogni “discorso” univoco e coerente (la coerenza « apparente » è un dogma che bisogna infrangere), ogni storia ed ogni passato, per possedere il « reale dominio del nostro esserci.
Al presente un’arte “ricca” ed involuta perché basata sull’ immaginazione scientifica, sulle strutture altamente tecniche, sui momenti polisensi, in cui il giudizio individuale si contrappone, imitando e mediando il reale, al reale stesso, con una prevaricazione dell’aspetto letterario su ciò che realmente si vuole.
Alla convergenza tra arte ricca e vita, l’arte « povera », un esserci teso all’identificazione, cosciente, reale=reale, azione=azione, pensiero=pensiero, evento=evento, un’arte che predilige l’essenzialità informazionale, il comporre teso a spogliare l’immagine della sua ambiguità e della convenzione che ha fatto dell’immagine la negazione di un concetto. Concetto che riemerge ora quale « deus ex machina » dinnanzi alla macroscopica valorizzazione della rappresentazione e del modus videndi, per una affermazione della “civiltà dell’intelletto”.
Un’arte che trova nell’anarchia linguistica e visuale, nel continuo nomadismo comportamentistico il suo massimo grado di libertà ai fini della creazione, arte come stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza (mentale e fisica), come urgenza di un esserci che elimini lo schermo “ fantastico »e mimetico dinnanzi agli occhi della comunità degli spettatori, per condurli dinnanzi alla specificità mentale e fisica di ogni azione umana, quale entità da completare e giudicarsi.
L’arte povera non è infatti un operare illustrativo e teorico, non ha come obbiettivo il processo di neo-rappresentazione dell’idea, ma è indirizzata a presentare il senso emergente ed il significato fattuale dell’immagine, come azione cosciente, si presenta lontana da qualsiasi apologia oggettuale ed iconica, è un agire libero, quasi intuitivo, che relega la mimesi a fatto funzionale e secondario, i nuclei focali risultando l’idea e la legge generale.
Un momento freschissimo che tende alla «decultura», alla regressione dell’immagine allo stadio preiconografico, un inno all’elemento banale e primario, alla natura intesa secondo le unità democritee e all’uomo come « frammento fisiologico e mentale ».
Una continua presentazione del significato fattuale che è un ritorno al medioevo, non soltanto da un punto di vista tecnico (come ha segnalato, puntualmente Fagiolo in merito alla “tecnica proletaria”), ma anche poetico. Un’identificazione uomo-natura, che non ha più il fine teologico del narrator-narratum (Sanguineti) medioevale, ma un intento pragmatico. Una denotazione che è identificazione totale tra « re-invenzione ed invenzione (Boetti). Quasi una riscoperta della tautologia estetica, il mare èacqua, una stanza è un perimetro d’aria, il cotone è cotone, il mondo è un insieme impercepibile di nazioni, l’angolo è la convergenza di tre coordinate, il pavimento è una porzione di mattonelle, la vita è una serie di azioni.
L’idea, l’evento, il fatto e l’azione visualizzati e materializzati sono infatti le focalizzazioni del rapporto di simultaneità tra idea ed immagine, conducono solamente ad un allargamento di esperienza circa quell’idea, quell’evento, quel fatto e quell’azione, non divagano con elementi ambigui e polisensi, sono la concretizzazione visuale di un fatto o di una legge naturali ed umani. Non importa se le « cose », che ne risultano, sono eseguite in un « particolare » materiale (“ i materiali sono le maggiori afflizioni dell’arte contemporanea “, LeWitt) o se rispondono a precedenti realizzazioni dell’autore che li ha costruiti o di altri autori. L’idea visualizzata e materializzata non contiene un programma, non segue una storia individuale o sociale, è solamente la presentazione di un termine, non accetta relazioni, non rappresenta, ma presenta.
Come ogni cosa fatta vive nell’orgia del discontinuo, mette al bando lo « studio » del sistema, si presenta come elemento del conoscere concreto dell’autore. Il suo universo strumentale è finito, si adatta al materiale di cui l’autore, al momento della concezione, dispone, è un insieme contingente, non ha a che fare né col passato, né col futuro. E’ così com’è, concluso nel tempo di essere presentato e realizzato, esprimere una reale percezione del ‘contingente (Pistoletto).
La poesia deriva dal fatto che l’oggetto (da « objectum », esposto, messo avanti ai nostri occhi) ottenuto non dialoga con le cose, ma parla mediante le cose, espone il carattere e la vita del suo autore attraverso la scelta che egli opera in un numero limitato di possibili eventi e idee.
Considerato che la telepatia non è ancora un sistema « affermato » di comunicazione (seppur la droga lo stia gradatamente offrendo), tutto si riconduce a « costruire » l’idea intuita. Lo sforzo è quindi portato all’ intento di comunicarla mediante un medium che non conceda nulla all’ambiguità e all’apertura semantica.
Ne deriva una fisicizzazione di un’idea, un’idea tradotta « in materia », un modello,’ formato ingrandito, dell’apprendimento mentale e fattuale, naturalmente non una fisicizzazione vitalistica ed orgiastica, ma « mentalistica ». L’autore, ponendosi alla convergenza tra idea ed immnagine, diventa il vero protagonista dell’evento, si integra all’attualità ed al divenire evolutivo delle sue idee.
In questo senso, dicevamo, ritorna il « sentire » medioevale. Così affermava Tommaso d’Aquino in merito all’architetto: «La forma delle cose da crearsi deve avere un archetipo in colui che crea. Ciò avviene in doppia guisa; in taluni soggetti attivi la forma delle cose da creare preesiste, come avviene per gli esseri in natura (così l’uomo genera l’uomo e il fuoco genera il fuoco), ma in altri soggetti la forma preesiste nello spirito dell’essere intellegibile. Così la casa preesiste nel senso dell’essere intellegibile e può essere definita un’idea della casa perché l’artista si sforza di imitare (nella realtà) la casa stessa in quella forma che possiede nel proprio spirito ». Lo « spirito »è lo stesso, allora si forgiava l’opera secondo un’idea metafisica dei vero, oggi la si realizza secondo un’idea del nostro conoscere concreto. La « imitatio »del mondo oggi volge al suo fine.
Piano –sequenza e gesto
Così il cinema regredisce alla sua manifestazione più libera ed elementare, una singola immagine che si muove. Warhol filma (“Sleep” ) un uomo che dorme per dodici ore, oppure abbandona (“Empire”) la cinepresa all’angolo di una strada per registrare gli accadimenti e gli eventi casuali, in alcune ore, all’angolo di un grattacielo, passa un gabbiano. Anderson presenta, in alcuni minuti di proiezione, lo squagliarsi di un gelato, le cui ciliege al cadere emettono rumori spaventosi. Il cinema ritorna ad essere cinema e non diventa film, riproduce l’azione libera e il presente (Godard e il dimenticato Rossellini hanno fatto e fanno del cinema), si abbandona e identifica alla contingente acquisizione visiva del regista, non opera alcun montaggio, nessuna collazione intellettuale, non storicizza l’azione.
Filologicamente recupera Muy bridge, Dickonson e Lumière. Rifiuta la creazione intellettualistica e lascia il campo al linguaggio dell’azione (Pasolini), mediante un piano sequenza illimitato.
Piano sequenza illimitato che diventa ora in Warhol e Godard un cinema sequenza illimitato, un continuo avvicendarsi di azioni e contrazioni, di avvenimenti « finti » e veri, di «apprensioni » cinematografiche ostentate come possibili acquisizioni « del e non sul » reale, tali da definire ogni evento, di n metri di pellicola presentati al pubblico, la « fine di un inizio» (Godard).
Parimenti in teatro, Grotowsky nel suo « teatro povero » elimina la sovrastruttura scritto-parlato o la riduce a voce fuori campo, come Ricci in « Sacrificio edilizio », distrugge l’artificiale linguistico e ritorna alle radici e alle situazioni gestiche primarie. Il corpo, e con esso l’attore, è nobilitato ad altare rituale (Living Theatre) e la scrittura drammaturgica si esplica attraverso i segni della vita. Il processo linguistico consiste così nel togliere, nell’eliminare, nel ridurre e nell’impoverire le azioni e i segni creativi per sottrarli ad ogni scolastica concettuale. Si rinuncia alla complicazione semantica, si focalizza non più l’ambiguità del reale, ma la sua univocità. Si elimina dalla ricerca tutto ciò che può sembrare riflessione e rappresentazione, « abitudine » linguistica, per approdare ad una totale osmosi tra processo vitale e mentale.
L’irripetibilità di ogni istante
Se noi « recitiamo », Pistoletto (e con lui Pascali, Kouneilis, Paolini, Merz, Anselmo, Zorio, Piacentino, Prini, Boetti, Fabro) non recita. Se il vivere ha lasciato il comando al vedere, Pistoletto inizia, con gli specchi, a ricostruire fenomenologicamente chi siamo e come siamo. La realtà entra nello specchio ed è la prima tappa per un rapporto globale tra arte e vita. Pistoletto non gioca ad essere qualcuno, trovato un « mestiere »non vi si affonda, non crede nell’autonomia della sua parte, il suo esserci (la presentazione dell’immagine fissa nello specchio) deve immediatamente dialogare con la vita (l’immagine riflessa). Con la stratificazione tra le due immagini « rappresenta » l’osmosi tra arte e vita. Ma non gli interessa neppure rappresentare, non vuole continuare a recitare, in tutti i modi intende vivere nel presente, preferisce così vivere nel « vuoto »esistente tra arte e vita.
Vuole esistere e presentare al tempo stesso il presente, non aspira più ad avere il mondo come modello od oggetto da riflettere, necessita invece di essere nel mondo e sentirne il movimento e le vicende. Non intende legarsi ad un unico gesto, ma vuole compromettersi in ogni azione per dimostrare come vivere sia sentire « l’irripetibilità di ogni istante » (Pistoletto).
Come la scienza, non ammette un settore privilegiato di azione e non possiede una tematica precostituita, ma esperisce sui dati, temporalmente acquisiti, per acquisirne degli altri, così Pistoletto, poiché non vuole legarsi né integrarsi in un, sistema, non concede nulla al tempo e alla storia, non circoscrive la sua azione ad un unico modo di essere, ma si determina attraverso il modo autentico di essere nel tempo, « si progetta” continuamente.
L’accento si sposta così dall’esserci dell’oggetto e del prodotto all’esserci dell’uomo. L’intento sta nel trovare il modo di presentare il suo conoscere e percepire. Basta non lasciarsi vincolare da una domanda o da un sistema di domande, poste dal nostro intelletto, ma risolverle ed esaurirle, uscire dal vortice di queste per liberarsi dall’accumulo, concretizzarle dunque in risposte che « nella contingenza aprano e chiudano la loro storia (Pistoletto).
Il momento di « presa di possesso della realtà diventa così un fatto poetico che, nei momento di offrirsi e di essere offerto, modifica il nostro modo di comunicare e di essere, ci rende dunque « soddisfatti nel mondo, anziché tragicamente insoddisfatti » (Living) attraverso la liberazione e la proiezione.
L’azione non necessita quindi di un gesto iterato e rinnovato, la simultaneità del processo esclude un irrigidimento di un sistema che confermi l’azione passata e ponga le basi di quella futura, l’azione intellettivo-visiva si identifica solo col presente.
Così le «cose» di Pistoletto sono « oggetti in meno », non in più, Sono l’espressione poetica del suo percepire e comunicare, non rispondono mai ad un’aspetttativa codificata, sono anzi la negazioe dell’irrigidimento e della giustificazione di un’aspettativa, si rapportano solo al presente, sono liberazioni per la creazione di un « nirvana » naturale.
Una ricerca di visione globale che Pistoletto si è posto nel 1964 e che ha concretizzato nel 1966, realizzando una serie di « cose », apparentemente incoerenti, quali nel ‘66 il presepe, il pozzo di cartone, la struttura per parlare seduti, la foto gigante di Jasper Johns, la lampada a luce di mercurio, una bacheca per vestiti, la rosa, un tavolo con piramide verde; nel ‘67, un bagno, un corpo ricoperto di mica, una palla di giornali pressati, una casa, una pietra miliare, una serie di lampadine, una fila di candele accese, una moltitudine
di gesti liberi, dal taglio di capelli all’Università di Genova al gioco con la sfera di carta per le vie di Torino, un operare ed agire che permette a Pistoletto di rimanere, come Duchamp e Warhol (artisti prediletti da Pistoletto), sempre al confine tra arte e vita, un vivere asistematico in un mondo in cui il sistema è tutto. Se si sveglia l’uomo reale siamo all’anarchia.
Anarchia già in atto con Boetti, Paolini, Kounellis, Pascali, Zorio, Prini, Merz, Fabro, Anselmo e Piacentino. Il mondo della definizione artistica si riduce al modo dell’essere e dell’agire. Reazione mentale e presenza fisica. Così si disaliena il linguaggio e lo si riduce a puro elemento visuale, spogliato di ogni sovrastruttura storico-simbolica. Si esalta il carattere empirico e non speculativo della ricerca, si sottolinea il dato di fatto, la presenza fisica ed il comportamento del soggetto. Così Prini si muove nel vuoto. Le tracce lasciate dal suo procedere si identificano con gli spostamenti del suo corpo, i suoi « prodotti » si ostentano così nella presentazione obiettiva delle strutture significative del contesto percepito ed agito. Sono «cose » e punti, proiezioni plastico-volumetriche della sua percezione. Nulla viene inventato, tutto si scopre. I dati toponomastici e spaziali di una stanza, di un oggetto vengono offerti mediante una semplice azione di perimetraggio ottico-sonoro. Così il perimetro di aria (una stanza segnata da 4 angoli al neon, più un centro, che si accendono progressivamente, accompagnati dagli scatti sonori dei relais), i punti neri disposti casualmente sul pavimento, i passi di un metro, gli scalini-pavimento, l’asta elastica di sei metri compressa in una stanza di 5-4-3 metri sono l’essenzializzazione di una sua dimensione nel contesto « vuoto »che ci circonda. Firma le stanze vuote di una galleria e si « appropria » del contenitore. La violenza del suo processo nasce dall’enfatica ostentazione di uno spazio (il suo) banale, consueto, sensorialmente impercettibile,familiare, come può risultare il vuoto d’aria di una stanza.
La scoperta del suo vuoto, come volume d’aria, sconcerta. Il vuoto vive e si fa presenza ingombrante. L’ambiente, con i suoi prodotti fisici, si annulla. Parimenti l’oggetto ipotetico scelto da Prini si identifica con i suoi ipotetici punti d’appoggio. Così l’uòmo è un passo di un metro, il suo « pieno » sensoriale è lo spazio occupato nell’attimo di procedere innanzi dì un passo, il pavimento è una serie dì scalini da percorrere. La presenza di oggetti e luci non disturba però i segni-appunto di Prini, la fisicità delle sue percezioni ha il polo negativo nella concretezza degli oggetti. Il mondo con Prini appoggia nel vuoto, i poli reali o virtuali, sono i punti neri nello spazio.
Dal vuoto della stanza al pieno del mondo, il salto avviene con Paolini. Le bandiere, le ombre der mondo, il Dove, il Qui, la presentazione della tela firmata e datata sul luogo del suo essere presentata, i quadri per gli amici, sono la focalizzazione del carattere empirico e non speculativo del suo lavoro. Paolini con essi offre la sua visione cosmica della vita, dilata la sua opera, il suo agire e pensare, rapportandoli, non più al sistema linguistico originario di ogni singolo artista (forme, colori, tela) ma al sistema universale.
Complica il reperimento dell’uomo reale coll’ampliare l’esserci del suo gesto, non si accontenta di un unico sistema (scultura o pittura), integra sociologia, geografia, toponomastica...
Il lavoro presentato non vive più come monade linguistica, ma come fulcro di tutte le realtà mondane, è il centro del mondo. Paolini si identifica con Atlante.
Dalle grandi strutture in tela del 1966 Mario Merz è passato recentemente ad una serie di azioni di appropriazione-presentazione di oggetti e materiali. Stimolato percettivamente ed emotivamente dalla violenza della realtà, come insieme di più elementi dissociati, ha adottato un sistema di collazione che gli permettesse di offrire una visione personale del reale. Ha tradotto così la luce (neon), da medium disdissociante la percezione degli oggetti, in elemento segnico associante. Ne sono scaturiti degli insiemi o gruppi (bottiglia + giglio + bicchiere ± meccanismo ± neon, oppure bottiglia ± tubo+ plexiglas ± neon) che attestano il suo percepire a “blocchi” e a impatti indifferenziati, una serie di assemblaggi con significato autonomo, libero, non vincolati da nessuna storia, tesi solo alla presentazione di una sua “visione del mondo”. Una somma di proiezioni “ interiori” sugli oggetti che negli ultimi lavori si è tradotta direttamente “ negli oggetti. Il grande Gesto-ne, le lance realizzate in legno e perspex, il conoide, sono oggetti “pesanti” direttamente, senza alcun intervento mediato, costruzioni inventate e libere, testimonianza di un esserci lirico e pragmatico di Merz.
Ceroli, il costruttore “povero”per eccellenza, realizza ormai da anni le sue sculture-ambiente come manifestazione macroscopica di una sua estrema libertà inventiva. Gli insiemi ottenuti offrono infatti, mediante un materiale grezzo quale il legno, una dimostrazione continua del suo nomadismo creativo, approdano a temi eterogenei e diversi, letterari, sociali, emotivi, architettonici e visuali. Nulla sfugge al ritaglio di Ceroli. La sua personalità è un catalizzatore di immagini. Così le farfalle, la Cassa Sistina, la Gabbia per cento uccelli, il Posteggio, il tennis, il Mappacubo, le Colonne, il Tempio, la Grande sfera, sono concretizzazioni spaziali di apprensioni fantastiche e libere. Lo spazio creato e “ finto » èla dimensione dell’azione di Ceroli che acquista coscienza del suo vivere poetico, libero da ogni imposizione dimensionale. Ceroli crea gli “strumenti”, a noi diventare poeti.
L’autonomia domina incontrastata in Piacentino. i dati spaziali ed oggettuali si offrono. Le sue « monumentali » composizioni si impongono, sono un’aperta sfida alle convenzioni di spazio di ambiente, impossibile organizzarle, collocarle, piegarle al codice spaziale abituale. Seppur cromaticamente possedibili, al punto da lusingare la percezione dello spettatore, esse sfuggono. Così mediante il colore, quale catalizzatore critico, Piacentino emulsiona «in positivo » l’ottusa verità degli oggetti funzionali e non. Un tavolo si offre come dimensione oggettuale e spaziale di piano ± gambe, l’angolo come incontro di tre coordinate, un palo come asse, un leggio come assi + supporto, un intervento manuale e fisico che « fredda » la realtà e la pone sotto vuoto cromatico. La sua recezione del reale è estremamente essenziale, ogni entità oggettuale si offre scarnificata, ridotta ad grado zero della sua geometria. Appena rintracciata e determinata dalla nostra memoria, la struttura rivive, macroscopicamente, in un nuovo universo poetico, l’ottusa verità del mobile o dell’oggetto è però già in noi.
Se Piacentino afferma il suo esserci “sul” mondo, Fabro sottolinea il suo esserci “nel”mondo. Ogni sua azione presenta una dimensione fattuale, un conoscere concreto che gli deriva dalle sue percezioni elementari nel contesto mondano. Il pavimento, il cubo, l’asse, il concetto spaziale, l’oggetto che perde peso, il buco sono infatti “prese di possesso” ed atti di conoscenza di eventi in cui l’homo-fabro si presenta come fulcro. In questo senso ogni suo “prodotto” è tautologico, si offre per presentarsi libero da qualsiasi intervento esterno. Il pavimento diventa così una superficie piana da scoprire, la croce si costruisce sulle coordinate della stanza in cui sarà collocata, il cubo è la concretizzazione volumetrica di Fabro, in piedi con le braccia aperte, il buco è un buco di pochi millimetri in una grande lastra di plexiglas. Tutte “ripetizioni”, intenzionali, di azioni gnoseologiche attive che non posseggono alcuna connotazione emotiva, ma sono pura concretizzazione di « affezioni » del reale.
Uno scoprire mondano, realizzato mediante il libero proiettarsi, mentale e fisico, sul contesto che ci circonda ha condotto Boetti a realizzare, in pochi anni, innumerevoli « figure » del suo esserci. Ed ecco nei 1966 il ping-pong ottico, la lampada annuale, il rotolo di cartone, la catasta, le sedie e la scala “ cieche », il pannello mimetico; nel 1967 i cementi, i legni, 1850, la lamiera, la collina, il contenitore di perspex ricolmo di infiniti elementi e materiali, immagini preiconografiche che non intendono alludere ad alcunché di simbolico, ma vogliono offrirsi come avvenimenti astraenti e generali. Eventi bloccati nel loro accadere od azioni concretizzate in materia che ostentano solo il loro « farsi “, per denotare lo stupore di ogni azione inventata o reperita nuovamente per la prima volta, quale il taglio, l’incastro, l’accumulo, la creazione dei segni associativi, la scoperta di una decorazione già « in natura ». Boetti, domani, eliminerà il suo intervento, la costruzione sarà affidata allo spettatore, la reinvenzione dell’invenzione elementare sarà non soltanto “ finta (da “fingere”, rappresentare con la mente), ma vissuta.
« Io cerco di fare quello che mi piace, in fondo è l’unico sistema che per me va bene », afferma Pascali e si abbandona al gioco serio del “bambino”, che inizia a conoscere il mondo, e alla fantasia dell’uomo che riesce a vivere come vuole. La sua immagine, in pochi anni, passa dagli oggetti collazionati a formare uccelli e animali ai busti di donna, dai muri ai cannoni, dagli animali mitici alle cascate, dal mare alle pozzanghere, dai cubi di terra al campo arato, sino agli ultimi macroscopici bachi da seta realizzati in naylon e fu di ferro colorati. La sua presenza si annienta e si ricostruisce, si ridistrugge e si ricrea, secondo l’intensità della sua partecipazione ottico-sensoriale ai fatti naturali e primigeni.
Le forme risultanti « sono delle cose che stanno lì e voglio che siano guardate... è come, non so, vestirsi di giallo, è un fatto che può sembrare negativo, ma chi Io sa? La cosa essenziale è che mi danno forza, dimostrano che esisto. E’ il “guardarsi nello specchio”, per non vincolarsi ad un unico sistema esistenziale, che conduce Pascali a questo continuo nomadismo creativo. Ogni elemento « finto » è infatti una sineddoche naturale del suo Vivere e del suo esistere, come uomo che ha delle reazioni, per ché dunque legarsi ad un programma ed uscire per la tengente della Vita?
Così Kounellis, colpito dalla ricchezza del suo esserci, si allontana gradatamente dalla pittura per sentirsi più libero, « come uno che pian piano che passa il tempo diventa sempre più libero, più libero, più libero, che diventa un uccello, una cosa così, che manca di senso, ma è sempre più fantastica » . Nel momento di « offrirsi » attraverso la coltivazione dei cactus, il gioco col pappagallo, il dare il becchime ai canarini l’accendere il fuoco del suo fiore, passeggiare per strada e sentire gli odori della città, la morbidezza del cotone, l’acutezza della naftalina, Kounellis rompe continuamente con un suo essere precedente, avvicenda le azioni per non essere identificato con una sola, manifesta le possibilità di un esserci libero dell’uomo e delle cose.
Dall’essere dell’uomo all’essere del mondo, ecco le « entità espressive » di Zorio, un artista interessato a cogliere attraverso l’enfatizzazione visuale la precarietà degli avvenimenti, il tutto è relativo e l’energia potenziale del mondo. Così, nelle sue opere, la violenza dei tubi dalmine, dei colori, delle materie plastiche raggrumate, dei cementi, dell’eternit, della gomma tesa, dialoga con la precarietà del tempo, con il graduale cristallizzarsi dell’acqua salata sul telone, con l’incredibile resistenza dell’elemento elastico rispetto alla struttura d’acciaio, con la sottile instabilità del maglio.
Un’imprevedibile coesistenza, colta direttamente da Zorio nell’attimo del suo farsi, tra forza e precarietà energetica che sconcerta, pone in crisi ogni affermazione individuale e collettiva. Ogni azione, fisica e mentale, risulta così precaria, contingente, continuamente infranta dall’avvenimento e dalla scelta successiva, l’avvicendamento dei possibili punti di rottura. Vive come in una reazione a catena, dietro ogni avvicendamento, Zorio.
Infine Anselmo, con un’azione estremamente « tesa », fantastica e concreta al tempo stesso, che esalta il vivere contingente dell’oggetto in rapporto all’ uomo che lo organizza. Le sue « cose » infatti vivono al momento di essere composte e montate, non esistono come entità immutabili. Si ricompongono di volta in volta, la loro esistenza dipendendo dal nostro diretto intervento su di esse. Non sono prodotti autonomi, ma instabili, vivi in funzione del nostro vivere. La corrispondenza tra forze equivalenti (uomo-natura) giunge così ad un grado elevatissimo di concentrazione. Il foglio di plastica ricurvo, il cubo con la bolla d’aria equilibrabile, la lastra di formica in equilibrio instabile, la scultura dirigibile secondo le indicazioni della bussola, la sfera sull’acqua sono opere “aperte” ed impossedibili definitivamente. Bloccate nell’attimo di equivalersi, le forze coesistono a raggiungere un equilibrio, il nostro intervento può sempre alterarne lo “status”, ma il nostro compito è allora di unificare tutte queste cose ».
(febbraio 1968)
Germano Celant
Domenico Gnoli - 1967
Domenico Gnoli
Domenico Gnoli si vale, nei suoi dipinti, di una serie di operazioni e di accorgimenti che sono estremamente esemplari del clima di « nuova oggettività » in cui ci troviamo attualmente. In primo luogo, l'avvicinamento alle cose è condotto con criteri alterati e abnormi rispetto a quelli usuali. Una grave forma di miopia sembra affliggere l'artista e costringerlo a portare gli occhi a poche spanne di distanza dai motivi ritratti, così da non poterli abbracciare in un punto di vista globale, ma da spezzarli irrimediabilmente in brevi spettacoli parziali: l'allacciatura di una giacca, il taglio di una tasca, la « riga » di una pettinatura, il colletto di una camicia, e così via. In ogni caso, si può constatare una sfasatura rispetto a quanto sarebbe richiesto da una visione «normale»: quella visione normale la cui prima esigenza sta nel porsi, rispetto all'oggetto contemplato, a una distanza tale da affermarne il senso e la funzione: la distanza «utile», insomma, che ci consente di dargli un nome, di catalogarlo tranquillamente, di assegnargli una pacifica e non controversa destinazione. Nei dipinti di Gnoii, al contrario, si dovrà parlare semmai di una distanza « inutile », sbagliata. Come un fotografo e un operatore che sbaglino nell'inquadrare l'oggetto da ritrarre, e ne lascino fuori il meglio, per esempio, la testa di colui che indossa il vestito, i tratti fisionomici della persona di cui veniamo a conoscere così intimamente la pettinatura. O senza ricorrere a occasioni così esterne e meccaniche, pensiamo a quanto succede nell'ambito della nostra stessa vita psichica e percettiva, in taluni momenti di delirio, di disgusto, di condizioni comunque alterate, in cui appunto lo sguardo è calami-tato da brevi frammenti del panorama circostante, colti di per se stessi e non riportati nel loro più usuale contesto. In casi del genere, non è che intervenga un processo esplicito di deformazione fantastica e visionaria, poiché anzi forse in nessun'altra occasione ci si affida così totalmente alle armi di un puro «vedere» e percepire. Ma si tratta di un vedere, di un percepire che non si possono più dire neutri e passivi, bensì in funzione di segrete ossessioni, tali da ridare alle cose un potere di choc, di « nausea » attraente e repellente nello stesso tempo.
Attraverso un abbandono apparentemente totale all'inerzia contemplativa, si viene in effetti esercitando un atto di libertà, di non leggere le cose per il verso solito e ormai codificato, ma di riscoprirle secondo angolazioni inedite. In procedimenti del genere sta il succo della attuale « nuova oggettività »: ritrovare, come è nel dovere di ogni ricerca artistica, l'autenticità di rapporto con i vari aspetti del mondo; ma non puntando su atti di scoperto intervento stilizzante dell'artista, bensì simulando, a tutta prima, un suo ritrarsi in una zona opaca e inautentica, in un atto contemplativo « bete », inanimato, fiaccamente miope e aderente. Una strategia questa, di cui appunto Gnoli offre un ottimo esempio: un esempio particolarmente probante e significativo per quanto riguarda il problema di come rendere la materia degli oggetti affrontati. Si sa bene che cosa imporrebbe al riguardo l'ottica « normale »: tutta presa a bloccare le linee principali e tipiche di un evento, essa consiglierebbe di sbrigarsela rapidamente, per quanto riguarda la materia, il tessuto di cui sono fatte le cose, di ricorrere quindi a poche stesure compendiarie, a poche macchie di colore. Del resto, non interviene forse l'atmosfera ad annebbiare i tratti troppo netti e marcati dei vari oggeti, a confondere linee e disegni, a stendere su tutto un velo trepido e cangiante? E se si tratta di rappresentare una figura umana, l'interesse non dovrà andare a prevalenza all'espressione del volto, o al gesto delle mani, o ad ogni altro elemento fisionomico? Chi potrà avere occhi per il disegno minuto delle stoffe in cui l'attore umano si drappeggia nel recitare la sua parte? Gnoli non è di questo parere; la distanza ottica « sbagliata » e inutile provoca i suoi effetti anche in questa sede, portando così a cogliere con estrema lucidità le trame di una stoffa, i ricami di una coperta, il disegno a quadri di una tovaglia. Non c'è compendio, non c'è sintesi, ma una analisi lucida, ossessiva, che fra l'altro procede ignorando affatto la presenza dell'atmosfera, come se tra lo sguardo e la materia percepita ci fosse il vuoto più spinto. Una esecuzione, insomma, in « trompe-l'oeil », che più che « rappresentare » le stoffe e i tessuti, li vuole restituire « tali e quali », come appunto si possono offrire alla visione ravvicinata di un miope. E qui di nuovo siamo in presenza della solita strategia: in un primo momento, l'atto di abbandono, il rifugio nella passività, nella « bètise » di una esecuzione minuziosa, esasperante; ma poi, il momento successivo del riscatto, giacché quell'accumulati paziente e insistito di fibre, di bioccoli di pelliccia, quel loro allinearsi scandito e meccanico, alla lunga danno il capogiro, minano la sicurezza di una concezione antropocentrica facendo avvertire che le forze sconfinate della materia sono all'opera molto vicino a noi, negli indumenti che portiamo quotidianamente: basta un brano di maglia per sconfiggere la nostra orgogliosa fiducia nelle armi della discrezione, nel primato delle forme « chiare e distinte ».
Estratto del testo di R. Barilli - Tratto dal catalogo Domenico Gnoli - Galleria de' Foscherari 1968
Le tre Progressioni - 1963
Le tre Progressioni - Cuniberti - De Vita - Pozzati