Domenico Gnoli
Domenico Gnoli si vale, nei suoi dipinti, di una serie di operazioni e di accorgimenti che sono estremamente esemplari del clima di « nuova oggettività » in cui ci troviamo attualmente. In primo luogo, l'avvicinamento alle cose è condotto con criteri alterati e abnormi rispetto a quelli usuali. Una grave forma di miopia sembra affliggere l'artista e costringerlo a portare gli occhi a poche spanne di distanza dai motivi ritratti, così da non poterli abbracciare in un punto di vista globale, ma da spezzarli irrimediabilmente in brevi spettacoli parziali: l'allacciatura di una giacca, il taglio di una tasca, la « riga » di una pettinatura, il colletto di una camicia, e così via. In ogni caso, si può constatare una sfasatura rispetto a quanto sarebbe richiesto da una visione «normale»: quella visione normale la cui prima esigenza sta nel porsi, rispetto all'oggetto contemplato, a una distanza tale da affermarne il senso e la funzione: la distanza «utile», insomma, che ci consente di dargli un nome, di catalogarlo tranquillamente, di assegnargli una pacifica e non controversa destinazione. Nei dipinti di Gnoii, al contrario, si dovrà parlare semmai di una distanza « inutile », sbagliata. Come un fotografo e un operatore che sbaglino nell'inquadrare l'oggetto da ritrarre, e ne lascino fuori il meglio, per esempio, la testa di colui che indossa il vestito, i tratti fisionomici della persona di cui veniamo a conoscere così intimamente la pettinatura. O senza ricorrere a occasioni così esterne e meccaniche, pensiamo a quanto succede nell'ambito della nostra stessa vita psichica e percettiva, in taluni momenti di delirio, di disgusto, di condizioni comunque alterate, in cui appunto lo sguardo è calami-tato da brevi frammenti del panorama circostante, colti di per se stessi e non riportati nel loro più usuale contesto. In casi del genere, non è che intervenga un processo esplicito di deformazione fantastica e visionaria, poiché anzi forse in nessun'altra occasione ci si affida così totalmente alle armi di un puro «vedere» e percepire. Ma si tratta di un vedere, di un percepire che non si possono più dire neutri e passivi, bensì in funzione di segrete ossessioni, tali da ridare alle cose un potere di choc, di « nausea » attraente e repellente nello stesso tempo.
Attraverso un abbandono apparentemente totale all'inerzia contemplativa, si viene in effetti esercitando un atto di libertà, di non leggere le cose per il verso solito e ormai codificato, ma di riscoprirle secondo angolazioni inedite. In procedimenti del genere sta il succo della attuale « nuova oggettività »: ritrovare, come è nel dovere di ogni ricerca artistica, l'autenticità di rapporto con i vari aspetti del mondo; ma non puntando su atti di scoperto intervento stilizzante dell'artista, bensì simulando, a tutta prima, un suo ritrarsi in una zona opaca e inautentica, in un atto contemplativo « bete », inanimato, fiaccamente miope e aderente. Una strategia questa, di cui appunto Gnoli offre un ottimo esempio: un esempio particolarmente probante e significativo per quanto riguarda il problema di come rendere la materia degli oggetti affrontati. Si sa bene che cosa imporrebbe al riguardo l'ottica « normale »: tutta presa a bloccare le linee principali e tipiche di un evento, essa consiglierebbe di sbrigarsela rapidamente, per quanto riguarda la materia, il tessuto di cui sono fatte le cose, di ricorrere quindi a poche stesure compendiarie, a poche macchie di colore. Del resto, non interviene forse l'atmosfera ad annebbiare i tratti troppo netti e marcati dei vari oggeti, a confondere linee e disegni, a stendere su tutto un velo trepido e cangiante? E se si tratta di rappresentare una figura umana, l'interesse non dovrà andare a prevalenza all'espressione del volto, o al gesto delle mani, o ad ogni altro elemento fisionomico? Chi potrà avere occhi per il disegno minuto delle stoffe in cui l'attore umano si drappeggia nel recitare la sua parte? Gnoli non è di questo parere; la distanza ottica « sbagliata » e inutile provoca i suoi effetti anche in questa sede, portando così a cogliere con estrema lucidità le trame di una stoffa, i ricami di una coperta, il disegno a quadri di una tovaglia. Non c'è compendio, non c'è sintesi, ma una analisi lucida, ossessiva, che fra l'altro procede ignorando affatto la presenza dell'atmosfera, come se tra lo sguardo e la materia percepita ci fosse il vuoto più spinto. Una esecuzione, insomma, in « trompe-l'oeil », che più che « rappresentare » le stoffe e i tessuti, li vuole restituire « tali e quali », come appunto si possono offrire alla visione ravvicinata di un miope. E qui di nuovo siamo in presenza della solita strategia: in un primo momento, l'atto di abbandono, il rifugio nella passività, nella « bètise » di una esecuzione minuziosa, esasperante; ma poi, il momento successivo del riscatto, giacché quell'accumulati paziente e insistito di fibre, di bioccoli di pelliccia, quel loro allinearsi scandito e meccanico, alla lunga danno il capogiro, minano la sicurezza di una concezione antropocentrica facendo avvertire che le forze sconfinate della materia sono all'opera molto vicino a noi, negli indumenti che portiamo quotidianamente: basta un brano di maglia per sconfiggere la nostra orgogliosa fiducia nelle armi della discrezione, nel primato delle forme « chiare e distinte ».
Estratto del testo di R. Barilli - Tratto dal catalogo Domenico Gnoli - Galleria de' Foscherari 1968