La natura come valore d'uso
«C'è chi fa installazioni concettuali o 'poveriste', chi dipinge tele neoastratte, neoespressioniste, neopop, chi fa algidi video o grandguignolesche cibachrom, chi metaforiche comunicazioni aziendali e chi fa televisionarie performances», osservava anni fa Piero Gilardi a proposito di un'attualità artistica che da la misura di un'overdose d'immagini e discorsi ormai risaputi,calati nel bel mezzo di una saturazione semiologica ottundente.Una screziata passerella di un multiforme dèjà vu, buona/ si direbbe, per tutte le stagioni; ma, in buona parte, di stagioni passate.Da poco o da molto, non importa poi tanto, come la moda insegna. Anzi, in questo caso il passato prossimo appare spesso più datato di quello remoto, riciclato alla bisogna e con le dovute credenziali. Pluralismo è la parola chiave che si può spendere a legittimazione di tutto, ovvero di una convivenza tutt'altro che pacifica e anzi decisamente concorrenziale. Come pretende la società dei consumi.[...] Da tempo Gilardi, che ha sempre pensato in positivo assumendosi anche il rischio consapevole dell'utopia, prospetta una condizione di postumanesimo in proiezione tecnologica. Che vuole poi dire fare i conti con l'ansia di una mutazione culturale di cui oggi si possono appena intravedere gli sviluppi. Da artista considera - ha sempre considerato — artisticamente le questioni centrali dell'esistenza e le contraddizioni della società. Le une e le altre, inevitabilmente legate, non possono che riproporsi nei termini di un rapporto con la scienza e la tecnologia sempre più carico di interrogativi, di speranze come di timori.Per certi aspetti potrebbe sembrare che si tratti ancora di una tensione escatologica di fondo umanistico, se non fosse che Gilardi ha ben chiaro come la «perdita del centro» -per dirla con Sedlmayr — corrisponda ormai nei fatti a una perdita di identità culturale — tipicamente umanistica, appunto — e vorrei dire anche topologica dell'uomo. Una caduta, in altri termini della sicurezza data anche dalle radici/da legami storico-geografici, sedimentazioni che neppure il cosmopolitismo dell'avanguardia aveva potuto scalzare. Anche il «villaggio globale» può essere visto pur sempre come una figura tranquillamente esperibile se ricondotta agli abituali canoni conoscitivi. Ora, le prospettive sul virtuale aperte dai nuovi media richiamano piuttosto a un idea di fluidità del reale, facendo apparire inadeguate anche le sue tradizionali simbologie. Anzi, osserva Gilardi che è la stessa nozione comune di simbolo ad essere messa in discussione, in quanto corrispondente ad una radicata concezione dualistica (fenomeno/noumeno, corpo/mente, materia/spirito, reale/immaginario, ecc.) che ha costituito il fondamento, la qualità precipua dell'arte. Com'è ben noto, il simbolo — sun ballein congiungere, (mettere insieme) — stava ad indicare un legame fra due parti sancito attraverso un segno di riconoscimento costituito dai pezzi combacianti di un oggetto spezzato, ognuno dei quali rimaneva ai due contraenti. I Romani lo chiamavano «tessera hospitalis». Poi, nella chiesa delle origini, significò il «credo», la professione di fede nel divino che legava, nella separazione, l'uomo a dio, e dunque rispecchiava anche la manifestazione di dio nel mondo. Un rispecchiamento che implica, appunto, la separatezza.
Ma, ora, l'apertura al virtuale porterà l'arte a deporre nel cassetto i principi di corrispondenza, di rispecchiamento, ad attraversare lo specchio di Alice? Quale potrà essere, non solo la fisionomia ma il ruolo di una creatività esercitata in una dimensione diversa? E, per altri aspetti, l'utilizzo artistico delle tecnologie avanzate offrirà davvero una via possibile per sottrarre l'arte stessa a quel potere che, perversamente, spesso ha fatto un uso tutt'altro che umanitario della tecnologia? Sono anche queste le domande che pone il lavoro di Gilardi. Domande che partono come suoi dirsi, da lontano. I tappeti-natura degli anni '60, certo. Ma subito prima vengono esordi — molto precoci: Gilardi era poco più che ventenne — che ora possono essere ben intesi come premesse di fondamentale importanza. Nella mostra del'63, Macchine per il futuro (del tipo: «per appagare gli istinti», «per la fecondazione e la gestazione artificiale», «per discorrere», che è tutto dire), era già palese l'intenzione di stabilire un preciso rapporto fra progettualità artistica e tecnologia, che se da un lato riprendeva certi presupposti del Futurismo — ed era già una scelta coraggiosa dopo tutte le rimozioni ideologiche del movimento — dall'altro doveva intendersi come un'apertura alla cibernetica.[...] Significativi, anche per quanto attiene i precoci interessi di Gilardi, alcuni passi di una dichiarazione del Gruppo N al premio Lissone del '61, dove gli adepti «riconoscono nelle nuove materie e nella macchina i mezzi espressivi della nuova arte in cui non possono esistere separazioni fra architettura pittura, scultura e prodotto industriale». Era ormai chiaro, comunque, che stava maturando un pensiero sul rapporto arte-società che evidentemente chiamava in causa anche l'idea di natura, in un tempo contrassegnato dalla «seconda rivoluzione industriale». Nel convegno di Verucchio del'63 infiammato da polemiche, Pierre Restany, teorico del Nouveau Réalisme, nota che «il nostro pianeta si appresta a essere immerso in un bagno di energia, la natura non è più romantica né pastorale, essa si identifica puramente e semplicemente al fenomeno sociale nel suo insieme, Natura=Società [...]. La natura d'oggi è un fenomeno tecnologico, pubblicitario, industriale, urbano [...]. Questa natura urbana la portiamo ovunque con noi, negli angoli più remoti, coni'aereo, l'auto, la radio, la televisione, in breve con tutti i nostri processi efficienti ed ultra rapidi di co-
municazione e informazione».
Tempo nemmeno un anno e il ventiduenne Gilardi realizza rigloo in poliuretano espanso e plastiche viniliche un'opera ambientale che a tutta prima sembra ventilare un paradosso: un richiamo all'idea più elementare e «naturale» di abitazione, realizzata con una materia della più evidente artificialità. Dove il moderno prodotto industriale fa tutt'uno con una figura archetipa del costruire. O, per meglio dire, se ne appropria. L'idea di una memoria antropologica primaria da riaffermare in una dimensione artificiale; di un processo sostitutivo del naturale cui assegnare il valore emblematico, forse anche didattico del conflitto fra natura e cultura? Intanto non sembra azzardato affermare che I-gloo, per quanto tipologicamente diverso dalle»macchine per il futuro» — più suadente/ felicemente ambiguo — nel deciso abbandono di una concezione canonica dell' «opera» per una realizzazione ambientale virtualmente praticabile, fa pensare a una premessa già lucidissima alle future installazioni interattive .[...] Per Gilardi l'Igloo e poi anche lavori come Totem domestico, erano riferibili a una proiezione nell'artificiale di figure e bisogni primari di tutt'altra intonazione rispetto ai motivi della messa in scena consumistica. Gli stessi tappeti-natura, abitualmente, e facilmente, letti in chiave pop, spostavano e non di poco la questione. È ben vero che vi si coglie la stessa fiducia nella tecnologia lo stesso passaggio nel secondario, nell'artificiale, sbandierati chiassosamente dalla Pop a stelle e strisce e, più in sordina, già dagli Inglesi una manciata di anni prima . Ma i tappeti di Gilardi avevano il dono dell'ambiguità in quel loro sventolare la più dichiarata lusinga. Come a dire «questo non è la natura», ma a ogni evidenza, un oggetto sostitutivo. E senza scomodare troppo Magritte - in barba all'enunciato — che girava ancora intorno al problema della rappresentazione della gabbia delle convenzioni linguistiche. L'oggetto di Gilardi, nonostante l'apparenza del trompe-Toeil, era propriamente quello che intendeva essere: un oggetto, appunto, piacevole, allettante anche «bello» - perché no? -ma della più palese bellezza ed evidenza artificiale. Volendo, lo si poteva anche usare. Toglierlo dalla parete, dove la memoria storica portava qualcuno a sospettare che fossa un moderno discendente dei festoni simbolici rinascimentali alla Crivelli; e, messo a terra, palparlo, strusciarlo, camminarci sopra. Anche a rischio di consumarlo, come in effetti è accaduto a chi ne ha fatto un uso che poco s'addiceva a un opera d'arte, ma che forse ne offriva l'interpretazione più giusta, anche se magari, inconsapevole. Con buona pace dell'aura del feticismo dell'opera, dei suoi valori da preservare, e quant'altro. Certo, Gilardi, in tale superamento dei tradizionali canoni artistici non aveva comunque rinunciato a quell'esercizio manuale, a quella fabrilità da «artigiano di lusso nella civiltà delle macchine», che era pur sempre requisito precipuo della buona tradizione storica. Questione non trascurabile che interessa anche tutto il suo
lavoro successivo, anche quello più recente che potrebbe sembrare quanto di più lontano da simili impicci. Anche su questo lo stesso Gilardi ha fatto opportune puntualizzazioni così come su altre faccende, a cominciare dal movente ideologico cui l'arte italiana del dopoguerra e degli anni '60 ha spesso attaccato a rimorchio vecchie e nuove sintassi visive. Per inciso la parte teorica voglio dire gli scritti gli interventi le conversazioni di Gilardi che si accompagnano al lavoro pratico, ne diventano sempre più un elemento intrinseco di non trascurabile importanza anche con quel tanto di didattico di esplicativo che vi si può cogliere. Con buone ragioni si dovrebbero considerare i tappeti natura già oltre la Pop. Intanto perché ne spostano decisamente la prospettiva da una visione organica alla logica consumistica, alla prefigurazione di nuove possibilità estetiche offerte dalla tecnologia. Una metafora al tempo stesso, del conflitto da risolvere tra l'antica nozione di natura e quella moderna di natura artificiale. Come in un passaggio evolutivo a un diverso stadio della conoscenza e dell'esperienza sensibile, dove dunque, per Gilardi l'assunzione dell'artificiale viene ad assumere — se si considera la situazione di oggi e gli sviluppi recenti del suo lavoro — un sapore quasi di premonizione. Come l'arguta variante dei vestiti-natura/ e dei similari vistosi gioielli (da far pensare al gioco infantile di usare un mazzetto di ciliegie per orecchini o una grande foglia come copricapo) con quel tanto anche di ludico e di futuristica memoria — ma qui tutta mutata di accenti - che richiamava ancor più una necessità d'uso una presenza viva un corpo che li indossasse. Premeva tuttavia, l'esigenza di andare oltre anche a quegli oggetti in materiale sintetico che avevano precocemente ottenuto una consacrazione internazionale.[...] Era maturata in un breve volgere di tempo, in un'ansiosa ricerca di collegamenti internazionali, la determinazione di superare lo scoglio del linguaggio artistico che per quanto diversamente riformulato non poteva comunque sfuggire a un destino di codificazione. Quegli oggetti poveri realizzati con materiali di recupero erano la provocatoria affermazione della possibilità di riscatto di una pulsione creativa non soffocata dalle convenzioni ma portata nel quotidiano ecco terra terra attingendo all'infinita congerie degli oggetti prodotti e divorati dalla logica del consumismo. Si avvertiva in quel clima storico l'esigenza di stabilire un rapporto più diretto con la vita per ritrovare le potenzialità l'energia primaria dell'individuo — o le «strutture del primario» come diceva Maurizio Calvesi spostando sostanzialmente i termini dell'opzione minimalista delle «strutture primarie» — in una società massificata capace di assorbire e neutralizzare gli stessi fermenti dell'avanguardia. Dibattiti accesi acribia di analisi ricerca di autonomia rispetto alle logiche istituzionali e alla gabbia del mercato sensazione di essere al centro di un sommovimento decisivo per le sorti della società. Al fondo c'era ancora il lascito delle prime
avanguardie a rinfocolare un'utopia estetico-politica. E fu il tempo dell'Arte Povera - che Gilardi aveva già percorso del Concettuale, degli happenings, degli eventi delle azioni e quant'altro potesse richiamare il pensiero di un «movimento» ossia di una reale trasformazione della pratica del ruolo dell'arte. E nella consapevolezza che le condizioni erano mutate, e che non bastavano più le rielaborazioni linguistiche, né i gesti clamorosi, eversivi, portati all'interno del sistema artistico, e forse neppure l'idea di una progettualità funzionale a un nuovo ordine sociale di lontana memoria costruttivista, la via più radicale puntava direttamente sulla lotta politica. Ben oltre, dunque, la specificità del problema artistico. La scelta più difficile, inutile sottolinearlo, Gilardi la fece, con pochi, pochissimi altri. Ma nella convinzione che, pur abdicando al ruolo convenzionale dell'artista non si rinunciava alla sua forza di immaginazione, alla sua propensione creativa. «Tutto sta nel vedere l'attività artistica — avrebbe confermato Gilardi qualche anno dopo — non come una mitica ricerca 'poetica' fine a se stessa, ma come un processo dialettico dell'individuo nei confronti della realtà sociale e materiale». Una scelta radicale, tuttavia ben diversa da quella di un «estetismo terroristico» — per usare le parole di Argan — presto diffuso a macchia d'olio, ma pacificamente assestato e «normalizzato» entro l'ordine costituito. Con tanto di onore al merito, quasi subito riconosciuto, alla «contestazione disinnescata» dalle neoavanguardie. Senza medaglie e anzi uscendo dal palazzo dell'arte, Gilardi è stato attivo in collettivi politici, si è dedicato all'arte terapia in un «atelier» psichiatrico», ha condotto esperienze di animazione» in Africa, con i nomadi Samburu, con una tribù di Indiani americani, con Indios del Nicaragua. Infilandosi quei famosi e umilissimi sandali, laicamente francescani, è andato a cercare, a modo suo, l'arte nella vita e via via ha maturato la convinzione che in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia fosse necessario recuperare e vivificare le pulsioni profonde dell'uomo proprio attraverso le possibilità aperte dagli stessi mezzi tecnologici. Di qui la prefigurazione di un'esperienza estetica decisamente proiettata sulla realtà virtuale che accoglie la sfida della cibernetica, o meglio del suo uso non propriamente artistico, con la minaccia forse non infondata che si trasformi in uno strumento di progressiva disumanizzazione e di annichilimento della coscienza. [. ..]. La sua esplorazione tocca sia i meandri ancora oscuri del profondo individuale, sia la mutevole trama dei processi dei comportamenti collettivi. Ma il suo Ulisse non è né omerico né joyciano, né umanistico né iperfuturista. Vorrebbe essere solo, diversamente, più compiutamente umano.
Tratto da «Piero Gilardi» Ed. Mazzotta, 1999, Milano Catalogo della mostra "Piero Gilardi" - Ravenna - Logget-ta Lombardesca. A cura di Claudio Spadoni.