Bruno Corà
Premessa
Espressione sospesa in una diretta proposizione è quella che qui preme rendere presente in un frangente come l’attuale in cui, attorno all’arte e ai suoi autori, s’addensano rumori di ogni specie, quasi un frastuono di proporzioni mondane, certamente molti equivoci. Chi pone la perentoria formula, a metà assertiva e a metà auspicale, lo fa avviando di fatto una riflessione che, se da un lato manifesta una imperativa necessità in termini estetici, dall’altro s’aspetta che gli interlocutori scelti forniscano significativi dati idonei, a partire dalla propria esperienza e, assieme alle opere, a orientare il cammino e il pensiero di alcuni di noi.
Contaminazione verso vanificazione
Sono state molte le cause che negli ultimi vent’anni hanno consentito l’invasione del campo artistico da parte di numerosi soggetti, i quali, mossi da differenti appetiti ed esigenze diverse dall’interiore domanda che l’arte pone ai suoi iniziati, come erbe infestanti si sono insediati attorno al suo organismo soffocandone la libera crescita e l’espansione incondizionata. Qui si intende il vasto caravanserraglio di comparse provenienti dagli ambienti più impensabili, alla ricerca di ossigeno fresco in epoca di trasformazione, transizione, crisi e mutamento dei codici identificativi. Dall’economia alla moda, dalla comunicazione all’informazione, dalla scienza alla religione, dalla politica alla critica, molte identità, esaurita la propria specifica spinta motivazionale, hanno preso d’assalto la dinamo inesauribile dell’arte, nella volontà di suggerne energia e vitalità. Non vi è campo della pubblicità o delle offerte commerciali che non usi la parola ‘arte’ per diffondere e rendere attraenti i propri prodotti, con il risultato di rendere impronunciabile, un osceno passe-partout quella parola, tanto evidente è la menzogna a cui essa deve fare da paravento. Nell’alta finanza, nell’obiettivo di conferire un crisma di enunciazione leonardesca al proprio agire, si usa l’espressione “central banking is an art, not a science”. Per dare credibilità e diffusione autorevole a una nuova rubrica dedicata al profumo e alla sua produzione, il «New York Times», con una ambigua campagna di promozione, presenta quelle attività come arte. In alcuni casi, ai prodotti più lontani da essa, per esempio un’automobile, si è perfino attribuito il nome di un artista! Senza considerare che né l’artista, né l’arte, in condizioni di radicale autenticità, hanno mai messo al mondo qualcosa che somigli a un prodotto deperibile, a una merce destinata alla rottamazione. Viene da pensare che il tentativo di identificare un’auto, un abito, un piano finanziario con un’opera d’arte sia stato l’espediente, non ingenuo, di qualcuno che in tal modo ha aspirato all’accrescimento di valore e al prolungamento di vita di oggetti altrimenti considerati scaduti all’esaurirsi della loro funzione Qui non si intende aprire una riflessione estetica che porti al chiarimento della diversità diametrale che distingue una merce da un’opera d’arte. Ma poiché non è nemmeno consigliabile definire in astratto cosa sia arte e cosa non lo sia, si rinvia tale distinzione proprio alla manifestazione dell’opera pienamente convinti che solo attraverso l’atto artistico si possa giungere all’autodefinizione. Peraltro, in arte, nonostante la diffusa disinvoltura ricettiva che la circonda, non si danno né saldi né sconti: al contrario, estranea a ogni pratica di liquidazione, essa piuttosto osserva imponderabili processi e criteri di crescita di valore esponenziale sine limite.
Questo accenno preliminare di minimo sgombero del campo vuol essere indicativo – se non altro – di quel macroscopico fenomeno di invasività dell’esterno all’interno dell’arte, effetto di un costume ‘partecipativo’ che sembra direttamente proporzionale all’idea di ‘morte dell’arte’, luogo sempre più comune connesso alle società di massa e ancor più, nell’ora del globalismo già agonizzante, alle comunità dei cosiddetti ‘creativi’, nuove identità capaci di intrattenere un enorme numero di soggetti in quella bolla di sapone esistenziale denominata ‘tempo libero’.
Individuare cosa sia essenziale all’arte in un frangente come l’attuale è compito esclusivo degli artisti. Assegnare criticamente, in modo inequivocabile, a loro e solo a loro la responsabilità di tracciare nuovamente il sentiero che riporti al luogo delle epifanie e delle stupefazioni vale a contribuire, come in una profilassi, a sgomberare il campo da fetazioni e focolai di inutili e dannose epidemie. È l’officiante, in ogni liturgia, ad amministrare il rito di fronte alla comunità, non certo i sacrestani o i chierici! Restituita la debita centralità all’opera e all’artista, resta da compiere l’individuazione di ciò che sia essenziale all’arte per espandere nuovamente la sua indescrivibile e complessa azione. Non vi sono attributi sbrigativi che facciano le funzioni di sintesi delle qualità odierne dell’arte. L’autogestione, resasi evidente nei numerosi episodi delle “Micce” tra il 1992 e il 1993, ha già fatto giustizia del sedicente e insidioso concetto di ‘sistema dell’arte’ e delle sue pretese sociologiche. Il discorso, com’era ovvio, torna a essere di pertinenza dell’autore dell’opera, unico motore generativo essenziale alla sua manifestazione. Ma, ciò detto, è pur vero che se l’esterno ha potuto così invasivamente occupare il campo destinato all’interno, è possibile ritenere che lo abbia fatto con il concorso di molti, compresi taluni artisti, con la loro tolleranza o attraverso la loro esitazione, al limite di una complicità; oppure, in certi casi, si può pensare che all’origine delle ‘contaminazioni’ vi siano stati numerosi episodi di debolezza nella capacità di creazione e dunque di autosalvaguardia dell’opera e vi sia stata una espressa volontà di alcuni artisti di venire a compromessi con l’esterno al punto di introdurre il “mondano” nella propria opera. E questo, ancorché rischioso, appare meno grave di un’invasione di campo subita. Ma allora, si potrebbe ritenere che quando vi è l’espressa volontà del mondano a invadere il dominio dell’arte essa corra seri rischi e, al contrario, quando è l’arte stessa a richiederne, compromissoriamente, un’invasiva presenza, tali rischi non sussisterebbero, anzi, per l’arte tale invasione sarebbe portatrice di fecondità? Quale deve essere insomma – dopo aver preso atto delle più o meno deliberate ‘contaminazioni’ – la relazione col mondo? E, a partire dalle profonde diversità che distinguono le manifestazioni del mondo, a quale di esse appare idoneo o scongiurabile che gli artisti si rivolgano?
Una vasta serie di quesiti di questo e altro tipo si sollevano sul piano della riflessione e, ad essi, non è possibile fornire una risposta surrogando o scavalcando la facoltà oracolare dell’opera. Ogni scorciatoia estetica per quanto acuta, non ha la facoltà di ri-assumere la domanda nel grado più alto e simultaneamente mostrarne, come fa l’opera, sospendendo ogni giudizio, la sua ontologica entità davanti ai nostri occhi. Il fenomeno che fa la sua apparizione nell’opera non è sostituibile per verba, ancorché esse siano opera, ovvero ars poetica.
Se, dunque, resta l’artista a indirizzare il cammino dell’arte, pur costellato da interferenze e ingerenze di ogni tipo, indebitamente esercitate o perfino talvolta invocate, se è soprattutto con l’opera che egli può indicare quel cammino e se, infine, a nessun altro può essere ascritta tale facoltà, quali sono, in ultima analisi, le attese che dall’arte intende veder corrisposte chi ad essa si rivolge?
Centralità dell'opera
Non si può dimenticare, una volta provato, il sentimento di profonda estraniazione e simultaneamente di vaga coscienza che affiora ogni volta al cospetto di un’autentica opera d’arte. I sensi e l’intelletto percepiscono qualcosa che mentre li appaga e acquieta già li stimola e inquieta. Uno sconcertante ma sottile richiamo non definibile, spesso profondo e durevole. Ciò che più sorprende è la sostanziale indifferenza del medium e della modalità linguistica capaci di suscitare lo stesso sentimento e, nondimeno, il fatto che i dati temporali dell’opera divengono secondari nel grado di intensità della percezione, al punto che sovratemporalità dell’opera e ‘non-tempo’ della coscienza, in un attimo, si trovano sulla stessa frequenza. Per i sensi e l’intelletto, nell’istante fruitivo dell’opera, si oscura ogni data. Le facili obiezioni riferibili a enunciati e proposizioni di certa arte concettuale o digitale, il cui potenziale di stupefazione è inesistente o quasi, sono eludibili con l’ovvia considerazione che non solo i sensi ma anche l’intelletto trae il suo piacere nel gioco percettivo.
Infine, ciò a cui non si rinunzia è che l’arte provochi sempre un’emozione seppur a gradi e livelli diversi.
Poiché, se ciò continua ad avvenire, sorge il quesito: verso cosa nuovamente si muovono i sensi e l’intelletto? Senza voler scomodare tutto il pensiero estetico postmetafisico, si direbbe semplicemente: a evidenziare e colmare una mancanza, della cui natura a configurare l’entità – e qui si approda a una circolarità enigmatica – si farebbe carico proprio l’opera d’arte. Ma se l’opera ha tale potere, a cosa essa non può e non deve rinunciare per mantenere integra la sua straordinaria facoltà?
Come a un atleta, all’artista che ambisce al primato dell’opera, sono richieste prestazioni straordinarie. Certamente la conoscenza di regole e fondamenti, una vocazione, una dedizione, una possessione, una perdizione, una lucidità e una passione. Perciò se ne osservano le prove, le mete, i risultati. Ma non basta: appare inderogabile ribadire di non voler avere niente a che fare con chi vorrebbe l’arte ancella a vario titolo, usando biecamente le sue più autentiche domande, i suoi dubbi e le possibili crisi, per tramutarli in risposte ‘funzionali’, certezze sbrigative, rassicurazioni assuefacenti. Nell’acuirsi delle contraddizioni molteplici dei nostri giorni, in un momento in cui all’arte e all’artista si rivolgono troppe attese interessate, non sarà il caso di affermare che ogni confronto eidetico dovrà avvenire al livello della qualità linguistica dell’opera? Riportare a questa frontiera ogni argomentazione e scambio possibile non è il modo più efficace per la salvaguardia di quell’entità che nell’opera d’arte si rende manifesta?
Nell’impresa artistica, costanza, perdita, fallimento, sicurezza, infallibilità e dubbio s’intrecciano continuamente. La radicalità eversiva del gesto, assieme alla tensione, all’autenticità, non garantiscono la riuscita né dell’opera né del destino. Troppi esempi dimostrano che all’eroicità degli atti non ha corrisposto subito una fortuna critica. Ma per tutti quei casi e per taluni giunti per sino al dramma o, ancor peggio, alla tragedia, è riconosciuta la magnitudine dell’integrità etica. Di fatto se, pur giungendo alle sue inconfondibili qualità, all’arte non arridesse il successo, viene da chiedersi, potrebbe essa però sopravvivere e reggere senza quell’integrità?
Nessuno vuole santificata l’arte né si richiama per essa una qualsiasi morale, ma sembra plausibile aspettarsi che essa sia fieramente eversiva e angelica, autorevolmente fondata e pronta ad abbandonare, in nome della libertà, ogni lusinga.
Erede di una mitica segretezza, come potrà l’arte eludere le premesse della sua origine rivoluzionaria? Non è la sua consumata ma eterna verginità la garanzia di una sempre possibile diversa esperienza in nome di un’eventuale scoperta?
Interlocutori, gli autori
Come premesso, e allo scopo di osservarne l’opera, si è ritenuto indispensabile far seguire a queste considerazioni il contributo attivo di alcuni artisti nel cui sodalizio si sono trascorsi numerosi anni di attività e molte esperienze. La scelta si rivolge in questa circostanza alle opere di Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro e Claudio Parmiggiani, nei cui percorsi individuali costantemente, ma specie negli ultimi anni, sembrano evidenziarsi preoccupazioni ineludibili per l’elaborazione dei principi e dei criteri formativi dell’opera, non separabili dalla sua valenza ‘politica’, in quanto parametro civile di esponenza culturale.
Osservandone concretamente le singole traiettorie di lavoro, si rende evidente che se dalla metà degli anni Novanta a oggi, Calzolari, dopo l’intensa esperienza dell’Arte Povera che – nella Galleria de’ Foscherari – ebbe una sede di esplicitazione poetica, spintosi a individuare nuove ragioni fondative della propria azione, ha intrecciato non solo differenti esperienze plastiche con la danza e il video, iniziando un radicale e trasparente riesame della forma e dell’immagine plastica, ma anche una meditazione disciplinare sulla natura morta e la valenza sensuale che pur in essa si esibisce, ciò è avvenuto perché essere artista per Calzolari significa anzitutto interrogarsi sulla qualità dei procedimenti concettuali elaborativi e sulla declinazione sensibile di una normatività osservata ma continuamente innovata. Da quella soglia epifanica luminosa, soprattutto per ampiezza di orizzonte dischiuso ai propri sensi, quale è stato il poema di Benvenuto all’angelo, 1967, agli odierni pronunciamenti aurorali per la consueta nevralgia che li distingue e li anima, Calzolari pone un richiamo sui principi di un fare artistico strettamente aderente all’esigenza poetica senza la quale, ai suoi occhi, l’opera appare priva di essenza vitale, di ragioni immaginarie e generative. Nell’incontro attuale di Bologna, infatti, Calzolari suscita nuovamente, dopo circa trent’anni da Day after Day, l’atmosfera delle sue più intense azioni, mettendo in relazione nell’ambiente sia la fragranza riverberante del corpo vivo di una modella, sia l’elaborazione plastica di un tavolo e di un lavoro realizzato col tradizionale mollettone, collocato al muro. Tanto appare ‘sognata’ e irreale la presenza di quel corpo femminile di cui, rovesciando le vesti e tenendole sollevate verso l’alto con un’aureola di palloncini rigonfi d’aria, mostra le fattezze dalla vita in giù, quanto, non di meno, spandono attorno a sé ogni tipo di vibrazione le poche ‘cose’ raccolte sul tavolo, essudate ed essiccate, cappello irrorato d’acqua o guscio di noce aperta, scelte a commuovere la percezione disposta a stupefarsi. D’altronde il paradigma di forme e immagini offerto nelle precedenti mostre presso le gallerie Stein e Cardi a Milano, questo stesso anno, ha dispiegato una lectio sui fondamenti, ancor prima che morfologici relativi alla pittura e alla scultura, di carattere ideale e poetico delle due forme. L’evento in ogni sua specifica articolazione operativa, chiarissimo ed esemplare, mette in risalto, come su un tavolo anatomico, i princìpi dell’elaborazione plastica, le esigenze compositive, le regole armoniche, il ‘che cosa’ della visualizzazione e il ‘perché’ dei corpi messi in forma.
Non diversamente, Luciano Fabro, dopo le celebri mostre romane Io (l’uovo), 1978 e il Giudizio di Paride, 1979, in cui implicitamente si era indotto a ‘ripetere ‘cos’è la scultura’, nel 1980, avviando il ciclo degli habitat, pose la questione del contesto spaziale elaborato esso stesso come opera insieme all’opera. Anche in quella e in successive creazioni di habitat, il richiamo alla ratio civitatis albertiana muoveva segnali in direzione di un ‘che fare’ che non tardò a giungere. Nell’83, dopo aver iniziato a insegnare a Brera, metteva i suoi allievi di fronte al celebre interrogativo, privo però del punto di domanda: intendendo il ‘che fare’ nel senso di ‘come fare’. L’esigenza maieutica derivava in quegli anni dal bisogno di rimettere in chiaro principi basilari dell’atto artistico e non certo gli aspetti che, imprevedibili, ne sarebbero potuti scaturire. Da allora Fabro non ha smesso di affiancare al lavoro una conseguente teorizzazione di esso, soprattutto quando, dopo l’aprile del 1986, a seguito della tragedia di Cernobyl, prima con C’est la vie, a Gand, e poi con Prometeo, a Milano, giungeva a mettere “in visione la caduta del nostro concetto formale che deriva dal concetto geologico cui è legata L’opera odierna installata nella sala d’ingresso della Galleria de’ Foscherari sembra mettere in evidenza alcune delle sue ben note preoccupazioni: il compimento dell’atto artistico come esercizio di responsabilità, la volontà d’interazione non solo con i propri contemporanei, ma anche con chi ha preceduto o seguito la propria azione, il rapporto di continuità umanistica, l’esercizio sottile della ‘sprezzatura’, la difesa del lavoro, le regole di comportamento e altro ancora. Le forme dell’Italia sollevate all’altezza di un architrave occasionale nello spazio con l‘intento di divenire soglia che mette in comunicazione i dati riprodotti del lavoro di alcuni artisti ‘storici’ – da Rosso a Fontana, a Lo Savio – con il lavoro di alcuni artisti più giovani, un tempo suoi allievi, da Protti a Morandini, a Citterio.
Dal canto suo, Claudio Parmiggiani, dopo la folgorante invenzione delle ‘delocazioni’ (1970), non ha più smesso di approfondire la pregnanza dell’invisibile e quell’assenza che, nella definizione delle forme, suscita una più intensa ‘presenza’ loro, soprattutto ai gradi superiori della coscienza meditativa.
Senza rinunciare all’esercizio plastico che nella precoce assunzione delle reliquie dei calchi classici o di parti di essi, in La notte, 1964, orientava già ogni gesto verso il deposito mnemonico della storia dei modelli, luogo immobile ma contaminato con i ‘capricci’ di un contatto con il proprio estro immaginativo, Parmiggiani, con solo nel momento del suo occultamento e sparizione allo sguardo. L’esigeninsistenza, indica la necessità di porre attenzione all’ombra, all’assenza, al silenzio, alla segretezza, infine a differenti modalità di non ostentazione, fino alle azioni che rendono compiuta l’opera za di far coincidere ogni tipo di materiale con l’idea ha spesso trascinato l’opera verso una smaterializzazione che la esalta come quintessenza del pensiero, come luogo dell’anima. Nelle sue più recenti creazioni, a Toulon, a Prato o all’Avana, Parmiggiani ha reso sensibile il silenzio, la polvere, l’assenza delle cose e del tempo.
All’opposto, quasi come segnale odierno di inquietante allarme, il ricorso alla ’pienezza’ esplicita di una forma-emblema rende il suo intervento a Bologna radicale monito, incombente come un rimorso. La grande catasta di libri arsi su cui poggia solenne e cupa la stessa enorme campana di cui si è udito il tragico rintocco nel Labirinto di cristallo del Teatro Farnese a Parma, lascia trapelare, in una dissolvenza mnemonica che ne ingigantisce la statura, l’incappucciata mole del nolano Bruno, arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma. È in questa facoltà di porre in risonanza sopite ma non estinte energie sensibili, che il lavoro di Parmiggiani s’impone con inalterata e distinta efficacia.
Così, pervase tutte di una tensione etica implicitamente politica alla concezione del fare arte, le opere di Calzolari, Fabro e Parmiggiani indicano che l’opera ha un registro essenziale invisibile, al quale ognuno di loro, attenendovisi, la pone in essere. È a questo preciso punto di incontro problematico, prima ancora che formale, inerente un’origine poetica insondabile al quale ogni gesto sembra rivolgersi, che appare necessario oggi porre attenzione e restituire centralità.
agosto-settembre 2006