• UPCOMING
  • EXHIBITIONS
  • Artists
  • Archive
  • about
  • PUBLICATIONS
  • News
  • Contact
  • Search
Menu

Galleria de' Foscherari

via Castiglione, 2b
Bologna
+39 051 221308
Galleria de' Foscherari
 

Galleria de' Foscherari

  • UPCOMING
  • EXHIBITIONS
  • Artists
    • PIER PAOLO CALZOLARI
    • MARIO CEROLI
    • CLAIRE FONTAINE
    • MARCELLO JORI
    • LUIGI GHIRRI
    • SOPHIE KO
    • LUIGI MAINOLFI
    • PIERO MANAI
    • EVA MARISALDI
    • MARIA MORGANTI
    • LILIANA MORO
    • HERMANN NITSCH
    • NUNZIO
    • CLAUDIO PARMIGGIANI
    • GIANNI PIACENTINO
    • GERMANO SARTELLI
    • VEDOVAMAZZEI
    • GILBERTO ZORIO
    • SOPHIE KO
  • Archive
    • ARTE POVERA, 1968
    • 8 PITTORI ROMANI, 1967
    • DOMENICO GNOLI, 1967
    • GHENOS EROS THANATOS, 1974
  • about
  • PUBLICATIONS
  • News
  • Contact
  • Search

Luigi Ghirri

October 23, 2008 de'Foscherari
luigi ghirri galleria de foscherari .jpg

Ghirri di musica - 23 ottobre 2008 - 23 gennaio 2009

 

Luigi Ghirri è stato uno dei maggiori fotografi italiani operanti nel secondo dopoguerra e, come sempre più diffusamente si va riconoscendo anche in campo internazionale, uno dei più sottili ed inventivi interpreti del linguaggio fotografico contemporaneo. Nato a Scandiano, vicino a Reggio Emilia, il 5 gennaio 1943, Ghirri inizia il proprio sodalizio con la fotografia nel 1970, dopo avere accostato e conosciuto, attraverso l'amicizia di alcuni artisti modenesi, l'esperienza dell'arte concettuale ed averne tratto suggerimenti e stimoli per la propria iniziazione. L'orizzonte dell'esperienza fotografica internazionale e l'ammirazione, sempre dichiarata, per il lavoro di autori come Walker Evans, Robert Frank, Lee Freedlander, William Eggleston, costituiscono un ulteriore appoggio per la formazione di una sensibilità e l'elaborazione di un lingaggio che faranno presto di Ghirri un protagonista della nuova scena fotografica: imprevisto e difficile da catalogare entro categorie e definizioni critiche già costituite; ma facile da iscrivere nel registro dei poeti più erratici e mai paghi di esplorare i territori mutevoli della visione e dell'immaginazione. 

Compagno e amico di tanti artisti, architetti, registi,scrittori, nell'arco di una vita troppo breve - muore improvvisamente nella sua casa di Roncocesi il 14 febbraio 1992- Ghirri incontra un giorno, per un destino preparato dalla sua smisurata passione per la musica - Bob Dylan il suo idolo incontrastato e, con le sue canzoni, compagno di infinite ore di vita e di lavoro - Lucio Dalla, intrecciando con lui un intenso rapporto di amicizia e una feconda intimità creativa. Dalla lo vuole a più riprese, nell'arco del triennio 1985-1988, testimone e interprete visivo dei suoi viaggi, dei luoghi a lui più cari, dei suoi concerti e del polifonico e cangiante spettacolo offerto dal mondo che li corona. Nasce così un catalogo generoso e intensissimo di scatti, fino ad oggi mai concesso alla curiosità del pubblico e all'interesse degli amatori e, da quel fondo, corposo e segreto, nasce l'idea di questa mostra, intensamente e amorevolmente voluta da Dalla, che, associando nella scelta delle opere, alla confidenza del proprio sguardo, l'esperienza di "curatore" di Nino Castagnoli, ha portato alla confezione di un'antologia emozionante che, attraverso una sessantina di stampe, ci rende testimoni di un dialogo autentico intercorso tra i due artisti e da Ghirri trascritto nelle immagini consegnate all'obiettivo: lungo strade che conducono a luoghi vicini e lontani, lungo itinerari di terra e per rotte di mare. 

Una mostra, dunque, che vuole consegnare un nuovo, significativo paragrafo al racconto della storia di un poeta capace di "straniare" la rappresentazione degli oggetti e dei paesaggi più consueti e famigliari fino a renderli, con apparente, totale naturalezza, fonti incontaminate e intangibili di incantamento e iscriversi, con qualche pregio, nella bibliografia sull'autore. A questo scopo, la mostra è accompagnata dall'uscita di un volume, che raccoglie, oltre alle riproduzioni delle opere in esposizione, una successione di testi di Lucio Dalla, Luigi Ghirri, Paola Ghirri, Nino Castagnoli.

 

Lucio Dalla

Ah se l'anima avesse gli occhi...!

 

Ah... se l’anima avesse gli occhi...! – si diceva ridendo con Luigi, quando ascoltavamo musica sul vinile o a un concerto, tra uno starnuto, un’extrasistole, fino a un “Anche se muoio adesso sono felice” al concerto di Bob Dylan a Napoli. – Sai quanti problemi in meno avrebbero le “tubature” che portano le lacrime alla fontanella degli occhi!? – Mi diceva.

Questo perché Luigi quando nacque nel ‘43 (il mio stesso anno) nasceva con la musica anche dentro alle ossa. Ogni volta che si sentiva suonare anche solo un campanello o il latrare di un cane nella notte, anche in un mio concerto o di Dylan (che era il suo grande amore) già gli scattava l’idea della foto o l’arrivo di lacrima o un petino di soddisfazione fisica da sigaretta dopo il caffè e via così!

Luigi e Paola, sua moglie, spesso mi seguivano in giro per il mondo e la musica, oltre lo stare bene insieme, era la scusa che ci faceva viaggiare. Parigi una settimana all’Olympia, New York, Boston al Berklee College, Mosca, ecc., sempre con le orecchie aperte e la macchina fotografica in mano e il sudorino nel cuore.

Nella mostra che state vedendo c’è qualche foto delle più di 10.000 che lui ha scattato e pensato nei nostri giri ma soprattutto c’è lui con me e questo un tantino mi commuove, come ogni volta che sul palco sto per cominciare un concerto e non posso non pensare anche a lui. Ciao Luis... bella la vita, eh...

ghirri_dalla_dallamericaruso.jpg

Paola Bergonzoni Ghirri

Se rinasco voglio suonare, cantare e basta

Mi chiedono di raccontare perché c’ero in quei giorni, con loro, con tutti loro. Negli studi di registrazione, nei viaggi in autostrada, ai concerti, in America, al mare, sul mare, nel mare. Tutti loro, visti solo alla televisione, al cinema, le loro voci, dei dischi, delle loro canzoni che, come le fotografie, implacabili, ti fanno ricordare. Ma io non sono più tanto sicura di voler ricordare perché dopo arriva la nostalgia che non serve a niente. E allora per andare un po’ più avanti cerco nella mia testa dei pezzettini di ricordi che per ora frullano come i pop corn dentro alle grandi sfere di plastica trasparente, nei luna park. Ed è lì che ci troviamo Luigi ed io, davanti al baraccone del “Giro della Morte”. Luigi in sella alla sua moto con un casco di cuoio, io in piedi accanto a lui con un costume luccicante le calze a rete smagliate, le piume in testa. Lucio ci sta dicendo che è così che ci ha immaginati da vecchi. È proprio un visionario, penso, ma non lo dico.

Gli anelli, le collane, gli amuleti, i cappelli, i tasti bianchi e neri. La musica.

Ho detto a Lucio che ha delle belle mani e lui non mi crede e non mi crede nemmeno il benzinaio di Bevano in autostrada che vede Lucio, Gianni, Luigi e me e dice – C’è anche la Caselli – ma io non sono mica Caterina Caselli! Ascoltiamo le sue canzoni in macchina trasmesse dalla radio e siamo lì seduti vicino a lui, penso che è una cosa stranissima. Stendiamo tutte le fotografie sulla moquette nera della Fonoprint, le guardiamo insieme e ridiamo soddisfatti perché è stato tutto bello. Di notte, in fila indiana con una pila, in tanti, nella macchia di Tremiti per andare ad ascoltare il canto delle diomedee, un setter irlandese ci segue, sento freddo alle spalle, ho i capelli umidi e un po’ paura.

Luca ed io stiamo lavando con l’acqua dolce la barca, Luigi e Lucio stanno parlando di Adorno e di Savinio, meno male che Giacomo ci sta preparando per cena qualcosa di buono di sicuro.

Stiamo entrando al Mayflower Hotel e sta uscendo Stefania Sandrelli, si abbracciano, lei e lui, e lei è bellissima nella sua camicia candida, e giovane. Siamo nei camerini dell’Olympia. Lucio inizia a cantare 4 marzo e Renzo dice che non può ricordare tutte le volte che l’ha ascoltata. Guardo lo stipite di una porta e penso – chissà se la Piaff ha guardato una volta proprio quel punto lì.

Luigi questa sera ha esagerato. Dylan qua, Dylan là, non ne poteva più nessuno. Anche Gino Castaldo faceva sì sì con la testa ma secondo me aveva già smesso di ascoltarlo da un bel po’.

Adesso guardo fuori dalla finestra. È mezzanotte e un quarto e le strade sono deserte. NYC by night. Un serraglio di tigri sta attraversando la Quinta strada. Forse è uscito dal negozio di giocattoli di Schwarz perché è proprio lì vicino, non ci sarebbe niente di strano; basta guardare la tavoletta della tazza del bagno di questa stanza che è di madreperla.

A Sorrento invece è tutto strano. Nella smisurata hall dell’albergo c’è un pianoforte un barista assonnato, tante poltroncine di velluto rosso sparse come le stelle in cielo.Un albero di Natale gigantesco. E Oliver Reed, rosso anche lui, che viene verso di noi con passi incerti e un bicchiere di Whiskey in mano. Sembra di essere in America.

Tutti nel teatro stanno cercando Lucio. Nessuno sa dov’è e devono iniziare le riprese del video di “Caruso”. Lo trovo. Dorme per terra tra una fila di poltrone e l’altra. Lui si addormenta dappertutto e dorme pochissimo. Guardo per qualche istante il suo respiro regolare poi decido di svegliarlo, ma mi dispiace.

Il mare di Palmarola è fermo e le occhiate nuotano con noi. Luigi non sa nuotare bene, a rana muove appena le braccia, chiude la bocca e gonfia le guance perché crede di galleggiare meglio, ma rimane sempre fermo nello stesso punto. Allora resta sulla barca e ci fa delle fotografie.

Stasera quando Lucio ha cominciato a cantare “Caruso”, nelle prime file c’erano già delle persone che si commuovevano.

Lucio risponde al telefono e cambia la voce per non farsi riconoscere, dall’altra parte qualcuno c’è cascato e ha messo giù subito. Adesso sta guardando Luigi che sistema in silenzio la macchina sul cavalletto. Una piscina li divide. Vedo che Luigi sta cercando il riflesso speculare di Lucio nell’acqua, credo che non lo trovi. Si guardano, stanno fumando poi si mettono a parlare contemporaneamente.

Siamo in chiesa a Roncocesi, Lucio tiene Adele in braccio. Anche Luigi è piccolo come loro. Don Gianfranco ci parla di Dio e del diavolo. Io non so dire se Dio c’entri con noi, ma sono sicurissima che il diavolo non c’entrerà mai.

Gli leggo il testo al telefono e Lucio mi dice di aggiungere adesso – siamo dei fiocchi d’avena in un vaso di vetro e tra poco saremo anche pop corn.

Roncocesi, 14 settembre 2008

ghirri galleria de foscherari 1 .jpg
ghirri galleria de foscherari 2.jpg
luig ighirri galleria de foscherari 8.jpg
ghirri de foscherari.jpg
ghirri galleria de foscherari 7 .jpg
ghirri galleria de foscherari 9.JPG
ghirri galleria de foscherari 6.jpg
ghirri galleria de foscherari 5.jpg
ghirri galleria de foscherari a.jpg
ghirri galleria de foscherari .JPG
ghirri galleri de foscherari 3.jpg
066.jpg
ghirri galleria de foscherari mostra.jpg
ghirri de foscherari.jpg
luigi ghirri galleira de foscherari 9.jpg
ghirri galleria de foscherari 1 .jpg ghirri galleria de foscherari 2.jpg luig ighirri galleria de foscherari 8.jpg ghirri de foscherari.jpg ghirri galleria de foscherari 7 .jpg ghirri galleria de foscherari 9.JPG ghirri galleria de foscherari 6.jpg ghirri galleria de foscherari 5.jpg ghirri galleria de foscherari a.jpg ghirri galleria de foscherari .JPG ghirri galleri de foscherari 3.jpg 066.jpg ghirri galleria de foscherari mostra.jpg ghirri de foscherari.jpg luigi ghirri galleira de foscherari 9.jpg

Luigi Ghirri

Conversazione con Lucio Dalla

Luigi Ghirri. Ho sempre pensato che molto del lavoro svolto dai fotografi italiani avesse una sottile coin- cidenza con le intuizioni di alcuni cantautori italiani, non so, forse una adesione o un interesse per un mondo o paesaggio marginale, o per raccontare certe microstorie, e trasformarle in qualcosa che riguarda- va tutti, cosa ne pensi tu?

Lucio Dalla. Io credo che questo riguardi principalmente il tuo lavoro, quello che dici non è applicabile a molti tuoi colleghi, anche se non ho una conoscenza approfondita, ma per quello che ho visto mi sembra che sia così. Perché al di là di motivi banali, come la professionalità, il modo di inquadrare il soggetto, delle tue fotografie quello che rimane, e che colpisce, è che diventa un prodotto fruibile; in questo senso mi sento vicino al tuo lavoro, perché anch’io sono vicino al pubblico che mi ascolta, come tu sei vicino al pubblico che mi ascolta, come tu sei vicino al pubblico che guarda le fotografie. Inoltre c’è un altro valore, e questo può valere per me, io ad esempio mi ricordo tutte le tue fotografie che ho visto: mi ricordo quella delle due palme con la panchina, quella della cattedrale di Trani e il mare, i due che vanno verso la montagna, e potrei continuare, elencarle tutte. Le tue fotografie hanno qualcosa che me le fa ricordare, io come altri vengo colpito dal guardarle, forse anche perché alla fine mi sembrano, come dire, delle fotografie musicate.

L.G. Cosa intendi con questo termine musicate, che tra l’altro mi piace molto, si sente che amo la musica, che hanno una loro musicalità o gradevolezza?

L.D. Sì, anche questo, ma con musicate intendo dire che hanno un loro suono interno, che hanno un inciso, un ritornello, si sente che sono costruite, che hanno un mixaggio. L’insieme di queste cose, alla fine colpisce il linguaggio- definitivo, che è di varia funzione, ad esempio sembra che non vi sia niente da scoprire, o che il centro dell’immagine non sia mai visivo o visibile, ma sempre un po’ più in profondità, oppure sembra che invece della luce, ci sia come un raggio che illumina le cose e che viene filtrato attraverso di te e la macchina fotografica.

L.G. In un’intervista, qualche tempo fa, dicevo che accettavi di farti fotografare volentieri da me, perché alla fine eravamo entrambi imbarazzati.

L.D. Il mio imbarazzo nasce anche da un po’ di stanchezza, che provo davanti all’obiettivo. Sono anni che non voglio e detesto farmi fotografare, ma non per odio nei confronti del fotografo, ma perché è come un gioco che mi ha un po’ annoiato. Con te, mi diverto ancora, mi piace ad esempio osservare il tuo imbarazzo nel prendere le fotografie, oppure, ti ho osservato molte volte come prendi le fotografie: sistemi la macchina sul cavalletto, esegui tutte le operazioni, e poi al momento dello scatto ti allontani e sembra che tu osservi il mondo con già dentro la fotografia e tu che stai fotogra- fando. Sembra quasi una casualità preordinata, e questo mi diverte. Inoltre in questo momento preferisco fare io stesso le fotografie, e come tu ben sai, è molto più divertente fare le fotografie, che farsi fotografare, inoltre questo ti dà anche la consapevolezza che dietro ogni fotografia c’è una sottile, lieve, forma di violenza e di prevaricazione.

L.G. Un giorno Borges scrisse che alla fine scavando in profondità nella nostra memoria ritroviamo qual- che canzone dimenticata e delle fotografie ingiallite, cosa ne pensi?

L.D. La frase la trovo bellissima, ma mi sembra che valga solo per noi latini, altre culture, come quella anglosasso- ne hanno altri riferimenti quotidiani o piccole litologie. La nostra emozionalità latina passa invece di più attraverso queste cose, fanno parte della nostra quotidianità. C’è però una sottolineatura malinconica, che mi appartiene, non penso mai ad una canzone, per esempio, in termini nostalgici, mi sembra che la canzone o una fotografia siano parte della nostra quotidianità e quindi del presente, significano tante cose, fanno parte della nostra vita, a volte mi sembra possano avere la leggerezza di una foglia.

ghirri-sorrento.jpg

Hermann Nitsch

December 15, 2007 de'Foscherari
Hermann Nitsch Galleria de foscherari .jpg

Orgien Mysterien Theater- 15 dicembre 2007 - 15 febbario 2008

La Galleria De’ Foscherari presenta nei suoi spazi una mostra dedicata all’artista Hermann Nitsch (Vienna, 1938) dal titolo Orgien Mysterien Theater (Il Teatro delle Orge e dei Misteri). Per l’occasione saranno esposti lavori recenti, alcuni dei quali realizzati appositamente per l’evento, che documentano attraverso diverse tecniche l’opera del maestro, protagonista assoluto dell’Aktionismus viennese e figura centrale nella storia dell’arte europea degli ultimi decenni. Collage e dipinti di grandi dimensioni (200 x 300 cm) trasferiscono nella veemenza del gesto pittorico e nella forza cromatica delle vernici la potenza visiva delle azioni realizzate dall’artista. Colore e sangue si stagliano sulle superfici delle grandi opere, su cui sembrano essersi sedimentati i ricordi delle performance compiute negli ultimi decenni. Gestualità pittorica e atto performativo trovano dunque una consonanza inedita, generando immagini dotate dello spessore temporale e filosofico che caratterizza l’intera opera dell’artista. Un’installazione composta da "relitti" di performance (lettighe, strumenti medici e altri oggetti utilizzati nel corso di diverse azioni), porta di fronte agli occhi dello spettatore gli aspetti più materiali del lavoro dell’artista: anche in questo caso gli oggetti sono pregni di significati e memorie, indizi e tracce di eventi avvenuti, testimonianze e reliquie dell’avverarsi miracoloso dell’atto artistico. Un video sarà incluso nella mostra al fine di documentare alcune tra le più celebri performance e azioni dell’artista, in un percorso storico che dagli anni Sessanta giunge fino a oggi. In occasione della mostra verrà prodotto un catalogo con un’intervista all’artista di Danilo Eccher e uno scritto autografo di Hermann Nitsch dal titolo Das Orgien Mysterien Theater, in cui egli espone le ragioni della propria poetica e delle proprie scelte espressive. Le immagini pubblicate in catalogo documenteranno l’opera di Nitsch dagli esordi risalenti alla fine degli anni Cinquanta fino alle più recenti realizzazioni della sua wagneriana opera d’arte totale, in cui convivono sfrenatezza dionisiaca e armonia apollinea. Hermann Nitsch nasce a Vienna in Austria nel 1938. Fin dal 1957 concepisce una nuova forma di opera d’arte totale (Teatro delle Orge e dei Misteri), in cui vengono messi in gioco tutti e cinque i sensi nel corso di azioni e performance dal forte carattere rituale e religioso. Nel 1961 fonda con Günter Brus e Otto Mühl il gruppo artistico del Wiener Aktionismus in cui le tecniche della pittura gestuale vengono applicate a una forma espressiva che unisce teatro, arte e musica, coinvolgendo in prima persona l’artista nelle condizioni più estreme. L’artista ha combinato la propria attività performativa con esposizioni, conferenze e concerti in Europa, America e Asia. Sue opere sono incluse in prestigiose collezioni, tra cui quelle dello Stedelijk Museum di Amsterdam, della Tate Gallery di Londra, del Guggenheim Museum di New York. Ha esposto presso il Museum Moderner Kunst Stiftung di Vienna nel 1978, 1999, 2002 e 2004, alla Stadtische Galerie im Lenbachhaus di Monaco nel 1988, al Konsthallen Göteborg nel 1997. Ha inoltre partecipato a Documenta V e VII a Kassel e alla Biennale di Sydney nel 1988. Nel 2007 viene fondato a Mistelbach, a nord di Vienna, l’Hermann Nitsch Museum.

nitsch 3 galleria de foscherari  .jpg
nitsch 6 galleria de foscherari .jpg
nitsch5 galleria de foscherari .jpg
nitsch 7 galleria de foscherari .jpg
nitsch2 galleria de foscherari .jpg
nitsch1galleria de foscherari .jpg
nitsch galleria de foscherari c.jpg
Hermann Nitsch Orgien Mysterien Theater Galleria de Foscherari .jpg
nitsch 3 galleria de foscherari  .jpg nitsch 6 galleria de foscherari .jpg nitsch5 galleria de foscherari .jpg nitsch 7 galleria de foscherari .jpg nitsch2 galleria de foscherari .jpg nitsch1galleria de foscherari .jpg nitsch galleria de foscherari c.jpg Hermann Nitsch Orgien Mysterien Theater Galleria de Foscherari .jpg

IL SENSO DELLA VISIONE NELL’O. M. THEATER  - HERMANN NITSCH 

1. Il mio teatro è un teatro visuale, appunto l’imparare a guardare è una richiesta importante del mio lavoro. Mai nella storia del teatro il visibile, quello che si accoglie con l’occhio, fu così importante come lo è nell’O.M. Theater. Quando vedevo che la lingua da sola non aveva più la potenza di esprimere quello che volevo realizzare, abbandonai il teatro del parlare e del raffigurare, e tentai di mettere in scena, all’interno del mio teatro, avvenimenti reali. Tutti i cinque sensi dello spettatore dovevano essere coinvolti reclamandoli in modo diretto. Un avvenimento reale si può registrare tramite tutti e cinque i sensi. Costruisco avvenimenti che invitano gli spettatori ad annusare, assaporare, guardare, udire, palpare con intensità. 

2. Io pretendo un guardare diverso. Quel vedere capace di percepire soltanto gli oggetti quotidiani, lisci, lindi con lo scopo di distinzione e che ormai può registrare soltanto termini linguistici già pronti, non mi interessa. Tengo, invece, a un modo di osservare che abbiamo perso e che percepisca gli oggetti da vedere in modo assolutamente sensoriale. Le nostre vie asfaltate, le nostre autostrade con la loro segnaletica univoca si mostrano alla vista soltanto nella loro nettezza funzionale. La viabilità a favore della velocità lascia intravedere poco del paesaggio originale. Soltanto con un incidente stradale tutto cambia. In questo caso la carreggiata è sporca di sangue, di corpi feriti o morti ed è bloccata da macchine distrutte, una vista orribile, inorridita, abissale ci viene improvvisamente imposta e richiesta. Osserviamo forzatamente con tutti i nostri sensi e siamo avidi di un evento. Le pulsioni (energie) frustrate dei curiosi vogliono vivere, pure a prezzo della morte. All’improvviso ci confrontiamo con l’altro lato della nostra realtà sensoriale. Ogni forte sensazione porta incondizionatamente a nuove esperienze, al di là della morale. 

La varietà di merce che ci mostrano quotidianamente i supermercati è confezionata per lo sguardo superficiale in modo appetitoso e lindo, igienico e gradevole. Già in Italia, in un mercato qualunque, si amplifica l’offerta visiva. C’è puzzo. Carni, interiora, pesci e frutti di mare gelatinosi giacciono crudi, rigogliosi e dai colori sfarzosi sui banchi. Carcasse di animali intere e spaccate, corpi macellati e scuoiati, pendono dalle bancarelle. Si distingue ancora l’aspetto originale dell’animale. Non di rado pomodori, frutta, grappoli d’uva sono eccessivamente maturi e sorvolati da vespe. I frutti spesso sono morbidi, sul punto di diventare marci e quasi fermentati. A volte sono piuttosto repellenti alla vista. Si sa però, che addentandoli la loro polpa sarà di una morbidezza benefica e di una dolcezza intensissima. Ci sono liquidi versati, latte, vino, olio. Puzzo di pesce che evoca l’odore del mare, odore di carne cruda e di trippa, fino all’odore di frutta troppo matura in via di fermentazione e di vino versato, intensificano l’effetto ottico di quei mercati che ancora non sono condizionati dall’organizzazione sfruttatrice del consumo di massa. Credo che sia noto quello che per me è importante. Dovremmo raggiungere una capacità di guardare piena e sensuale (sensorialmente intensa) che ci trasmetta le cose percepite non secondo la loro superficie, ma piuttosto secondo la loro sostanza interiore, direi addirittura la sostanza del gusto. Il vedere comune di oggi è appiattito fino a diventare una percezione non sensoriale, palesemente funzionale, senza applicare la profondità dei sensi. Tutto ciò che l’ordine della civilizzazione ci proibisce, o quasi, di registrare, dovrebbe stimolarci a una registrazione intensissima dell’esistenza. Del latte versato, un uovo sbattuto, un tuorlo spalmato, frutti schiacciati, grasso cosparso, carne cruda, viscere, intestini, escrementi, sangue spruzzato, sperma, vernice rossa versata, pozzanghere di pioggia ecc. invitano a una registrazione intensa, vengono registrati in profondità e impegnano il nostro bisogno di sensazioni acute. Un guardare pieno e sensuale non può rimuovere il tragico, la morte, la putrefazione, il marcio, deve coinvolgerci nel decorso della creazione. 

3. Se adesso si parla sempre del VEDERE, penso che quello che vale per il vedere, valga altrettanto per tutti gli altri nostri sensi. Il vedere è sostenuto dal complesso di tutti i sensi e per sua indole funziona correttamente soltanto in combinazione con essi. Una sinergia sinestetica è indispensabile. Vedere in modo intenso ci esorta ad annusare, assaporare e palpare in modo più intenso. Viceversa, gli altri sensi si intensificano altrettanto reciprocamente. Ogni singolo senso funziona per noi insieme agli altri. La riduzione a un solo senso significa perciò isolamento, ed è sbagliato che un senso si sviluppi meglio per la mancanza degli altri sensi. Non esiste un importante compositore che sia nato non vedente e perfino i grandi interpreti ciechi sono rari. Entrando ancora più nel dettaglio: l’offerta di consumo non ci può neanche prescrivere l’annusare e l’assaporare. Vanno intensificati e sensibilizzati in conformità alla ricchezza che ci offre la nostra natura interna ed esterna, non da ultimo in conformità all’inalterata specifica ricchezza delle sostanze commestibili. Lo stesso vale per il palpare e l’udire. Vogliamo immedesimarci profondamente nelle cose, aprirci ai suoni che sono al di là delle nostre abitudini acustiche e che si estendono fino alle grida. Di solito, gli animali sono dotati di maggior precisione e profondità nella percezione sensoriale di quanto non lo siano gli esseri umani. Perché non dovremmo includere nel nostro essere umani anche le facoltà essenziali e positive dell’animale, ovvero, perché non le sviluppiamo e coltiviamo? Una cosa non esclude l’altra. La nostra evoluzione è stata spesso troppo veloce e troppo unilaterale. Abbiamo creduto di poter rinunciare a certi campi di esperienze, particolarmente collegati ai nostri sensi, a favore dell’acume intellettuale. Oggi lo stesso acume dell’intelletto ci dice che non lo possiamo proprio fare. Non intendo tornare indietro all’animalità, tirar fuori il passato, ma piuttosto far evolvere quel qualcosa che è dentro di noi, che è presente, ma è stato trascurato durante il percorso di determinate fasi di sviluppo. Le pulsioni generate dalle energie primarie della nostra natura pretendono più di un semplice vegetare. Se questa necessità basilare non viene soddisfatta, si generano rimozioni e nevrosi. 

4. Come mai tutto quello che è viscido, carnoso, morbido, bilioso, liquido spinge verso un intenso sentire? Ho tentato più volte di trovare delle risposte a questa domanda, ma non ci sono mai riuscito in modo esauriente. Nonostante ciò [ecco] alcune riflessioni sulla domanda precedente, che vanno oltre la teoria anale di Freud. Tutto quello che è viscido e umido si può associare con la nostra fisicità, soprattutto con la nostra corporeità fatta di carne, di organi umidi e molli, di liquidi ematici, di secrezioni e di sostanze che attraversano il corpo, quelle che vengono rilasciate, come gli escrementi, il sangue mestruale, l’urina, lo sperma, la saliva, il sudore, il vomito e così via, ma si può pensare anche al cibo mangiato, inglobato, masticato, amalgamato con la saliva, indigerito, quasi digerito e digerito. Veniamo alla luce avvolti nella mucosità. Tutte le sostanze nominate vengono percepite da chi ha un sentore comune come schifose. Tutto quel- lo che è stato elencato viene registrato intensamente, ma provoca una percezione di ribrezzo e innalza una barriera contro la sensazione di schifo. Solamente il medico, il macellaio, il cacciatore, il contadino, il cuoco, la donna di cucina e l’artista si occupano del settore delle sostanze elencate Frequentemente è l’aggressione, la ferita inferta a un altro essere, l’uccisione, che ci mette a confronto direttamente con le sostanze interne alla fisicità carnale. Il sangue sprizza e fuoriesce da una ferita e la nuda, cruda carne della piaga diventa visibile. Solo con l’uccisione si rivela la carne e il sangue dell’ani- male cacciato. Durante lo sventramento, si vedono gli organi viscidi e molli e i fluidi che irrorano i nostri corpi. Il colore rosso appartiene alle cromie più forti che conosciamo. Ha un intenso valore di segnalazione che porta la nostra organizzazione psicofisica in uno stato di choc. Ogni volta che qualcuno viene ferito, quando c’è un assoluto pericolo di vita, fuoriesce sangue vivo e rosso. Forse il rosso, il colore del sangue, è considerato uno dei colori più belli e vivaci, perché è collegato con l’attacco e il pericolo di vita. L’aggressore e il cacciatore della preistoria seguivano l’intensità delle loro percezioni, dominate da una rapace voluttà di uccidere, poiché significava la sopravvivenza e l’alimentazione fino alla ‘crapula’ e la sazietà. Per l’uomo preistorico il vedere, capire e palpare degli organi interni, delle umide viscere della vittima, era collegato al profondo percepire naturale e sensoriale in relazione al feroce comportamento assassino, che filogeneticamente risiede in noi. È per noi un grande trauma, il fatto che uccidiamo e mangiamo i nostri fratelli del regno animale (e lo dobbiamo fare). Le esigenze di igiene, non immediatamente ravvisabili, che quasi vietano all’uomo contemporaneo normale di avere dei contatti con l’umido e il viscido, significano paura della morte e distruzione, paura della reale comprensione della vita, ovvero che il desiderio di cacciare e di uccidere risieda profondamente in noi. Di pari passo, vi è un timore nel riconoscere che, mentre mangiamo della carne, di fatto e quasi senza saperlo, soddisfiamo indirettamente la nostra volontà di uccidere. Rinneghiamo questo dato pagando alcune persone, i macellai, che uccidono per conto nostro. La carne che ci viene dispensata diviene irriconoscibile, viene fatta a pezzi e impacchettata e ci fa dimenticare che ci nutriamo di animali morti. Il divieto di uccidere è per tutti noi un tabù apparente, giacché quotidianamente si uccide. Ma noi NON CI SPORCHIAMO LE MANI. La paura del venir uccisi e l’istinto di uccidere è così forte, che alla sola vista di qualcosa di umido e viscido ci proteggiamo da esso. Non si vuole aver nulla a che fare con la visione delle crude parti organiche del corpo. Il muco e gli umori interiori ci riconducono al regno della morte. Ma proprio la sensuale intensità, con la quale ogni sostanza umida e viscida si trasmette, viene stimolata dal comportamento ferino, dapprima non ravvisabile, e dal desiderio inconsapevole di uccidere. Siamo noi la bestia più forte, insaziabile, irrispettosa e assassina. Questa comprensione appartiene alla tragica realtà della nostra esistenza. E la nostra cultura è una cultura di animali rapaci. Intorno al trauma della vittima e dell’uccisione si intrecciano tutti i miti. 

5. Fino ad ora molto si è parlato della nostra innata, ferina necessità di uccidere. Chi crede che io volessi glorificare l’uccisione o addirittura esortare a uccidere o richiedere che ciascuno di noi debba uccidere per soddisfare la nostra necessità in proposito, non mi avrebbe compreso a fondo. L’uccisione va riconosciuta come dato di fatto tragico nel nostro essere. Dobbiamo accettare costituzionalmente basilare, che abbiamo bisogno di uccidere per continuare ad essere vivi, è il processo della creazione che ce lo richiede. La restrizione di un’alimentazione vegetariana minerebbe la nostra fondante e creativa forza propulsiva. Non corrisponderebbe alla nostra specie. 

Il desiderio di uccidere deve essere tolto dalla rimozione e va riconosciuto secondo la sua realtà. Il bisogno dell’intensità dell’atto uccisorio deve essere cancellato da una vita fondamentalmente intensa, da una percezione sensoriale, sensibile e intensa delle esperienze e da un amore irrefrenabile per la creazione, attraverso un estatico ed ebbro vedere, assaporare, sentire, udire e palpare. La condizione del vivere intensa- mente e di per sé ebbrezza, la condizione dell’AMORE ci libera dalle necessità rimosse, inconfessate e arcaiche. 

6. Le sostanze che segnalano la nostra ferinità diventano visibili nelle mie azioni. Esse affondano nella profondità della nostra costituzione psicofisica. Soltanto quando la barriera del ribrezzo, che ci fa dimenticare la nostra bestialità, viene rimossa, si potrà riconoscere quanto la carne e il sangue sono importanti per il mio teatro analitico, che vuole offrire/presentare la tragica realtà del nostro essere umano fino alla tragica condizione della nostra creazione. In questo caso ‘tragico’ non va inteso nel senso di disperazione e rassegnazione, bensì come il tragico che è la morte, presente nella creazione. Il fallimento o la mutazione attraverso la morte devono avvenire, affinché si possano compiere fino all’eternità una consapevolezza vigile e un percezione estatica e felice. La tragicità viene superata attraverso un sì profondo e perenne alla vita. 

7. Gli artisti, con la loro istintiva analisi verso qualunque fenomeno estetico, sono affascinati, al di là del bene e del male, da quel mondo viscido, carnoso e bagnato. Gli artisti sono stimolati dalla nostra sensualità e scoprono qualcosa di «bello» anche dietro alla barriera del ribrezzo. Penso agli artisti del Rinascimento che, a costo della vita, sezionavano i cadaveri, a Rembrandt che dipinse diverse sezioni anatomiche e buoi macellati. Rientra nella tradizione degli olandesi il rappresentare nelle loro vitali nature morte, di continuo, animali sventrati, pesci freschi, scintillanti nella loro polpa bagnata e frutti di mare. Inoltre, penso a Delacroix che di mattina andava al mattatoio per studiare lo splendore cromatico di quel- lo che vi avveniva. E infine, si può riscontrare l’interesse per gli animali macellati in Lovis Corinth, Oskar Kokoschka, Chaim Soutine, Francis Bacon, e nei Surrealisti. Non si può, fra l’altro, dimenticare, che al centro della pittura cristiana c’è la Passione e l’uccisione di un Dio che ha offerto a tutti il suo sacrificio di carne e di sangue come pasto e libagione. Nella poesia si può in pari misura riconoscere l’ambito di questo interesse a partire da Omero, attraverso le tragedie greche, fino alla modernità. 

8. Soltanto la pittura informale ha dimostrato, al di là di ciò che veniva dipinto, la gioia diretta e sensoriale per le sostanze cromatiche, i liquidi colorati e le paste di colore. Con questo è iniziata la mia forma teatrale. Partendo dall’intensità sensoriale, che le sostanze e i liquidi suscitano, si è sviluppata una pittura d’azione che doveva soddisfare il bisogno di fare un’esperienza intensa attraverso i sensi. Ho versato del colore rosso su delle superfici orizzontali e verticali e nel farlo sono entrato in uno stato di eccitamento estatico. Volevo che avvenisse proprio quel percepire pieno e sensuale, di cui ho parlato, ostacolato e allontanato dalla civilizzazione. Ho definito il mio atto pittorico di allora come uno sfogo. Delle energie sop- presse dovevano uscire fuori e, attraverso una percezione esteriore, diventare consapevoli. La superficie pittorica veniva presto oltrepassata e superata. L’eccitazione provocata dalla pittura richiedeva un’esperienza ancora più intensa e sensoriale. Della polpa di frutta schiacciata, del tuorlo d’uovo viscido, della carne cruda e bagnata, del sangue, del siero e delle pecore macellate venivano utilizzate per le azioni che avvenivano non più su una superficie pittorica, ma in uno spazio. Durante lo sventramento, il cadavere della pecora squarciato, scuoiato, e irrorato di sangue vomitava e partoriva delle interiora dai colori ematici umidi, d’un rosso vivo e luminoso. Le budella turgide, piene di escrementi venivano tastate e strappa- te. La procedura dell’action-painting si amplificò fino al teatro, fino al procedimento drammatico. Il punto finale dello sfogo dionisiaco innescato per via analitica veniva raggiunto attraverso un’esperienza di pro- fondo eccesso sado-masochistico, il lacerare la pecora. Nell’atto cultuale dell’animale smembrato viene citato in sua vece l’evento mistico del corpo lacerato di Dioniso. Il desiderio represso di un vissuto possibilmente intenso, che miscela libidine procreativa e voluttà assassina con tutta l’esperienza estatica, diventa visibile come avvenimento teatrale e drammatico. L’inespressa avidità di uccidere viene elaborata, rive- lata e resa cosciente. La pittura dell’O. M. Theater divenne il rituale introduttivo per una nuova forma di teatro, che scopre il male fondamentale di una insufficiente esperienza sensoriale, di un non compiuto vivere. La catastrofe del dramma conduce la nostra propria intensità sensuale al punto finale. Le nostre intenzioni represse prorompono da noi in modo ebbro ed estatico, si riversano in un eccesso sado-masochistico (il cui esubero verte nella distruzione della morte) rivelando una corrente fondamentale di (trattenuta) vitalità, che ci può completare soltanto in momenti veramente grandi (qualora non ci distrugga), poiché va oltre la vita e la morte e significa l’eterno mutamento dell’essere. Ancora una volta: la voluttà assassina e la libido amorosa si fondono. L’assimilazione, ovvero la metabolizzazione, avviene. La presenza della morte permette che quello che è vivo si compenetri uccidendo. La vittima e il carnefice sono tutt’uno. La morte e la vita sono soltanto un flusso di voluttuosa mutazione, delle forze vengono citate e rilasciate, che vanno al di là di noi, le quali, qualora ci riempiano consapevolmente, provocano uno stato d’essere intenso, che apparentemente ci solleva dalla casualità della nascita e della morte. Si percepisce un essere perenne che va oltre la vita individuale. L’universo ci attraversa tuonando e distruggendoci quasi. Un’evasione dalla vita quotidiana, media, tiepida permette che si liberi un eccesso di energie. Le energie prorompenti si volgono verso la distruzione, attraggono la morte e vogliono tornare indietro verso un nuovo spiegamento di forze. 

L’evasione da una norma costrittiva ci richiede tutta la nostra forza e vitalità. Altrimenti, l’energia trattenuta prorompe da noi, ci cala profondamente nella nostra esistenza, nella nostra temerarietà, nella nostra estrema posizione prometeica del creare, che non teme né la vita né la morte (avviene un’identificazione con la creazione, con il processo e con il ritmo della creazione). È la creazione stessa. Non (solo) il mantenimento della vita, il mutamento del mondo, che vuole più della morte e della vita, la metafisica diventa una necessità (coscientemente) vissuta. La vita (creativa) vissuta intensamente ci porta in prossimità della morte. Quello che avviene intensamente è la mutazione del mondo, che significa più della vita e della morte, le quali sono soltanto degli stadi temporanei del complessivo processo creativo. Comprendere la mistica dell’essere, l’affermare e capire il cambiamento del mondo, vuol dire una metafisica che viene portata fino alla dimensione dell’evento. 

9. Il guardare è posto in strettissima relazione con tutto quanto finora detto, attraverso una presa di visione intensa del mondo circostante, veniamo tratti nella profondità dell’essere. Poniamoci oltre la dimensione tragica dell’atto drammatico davanti all’evento da osservare, proviamo ad avere un’impressione esteti- ca senza che contenga un significato e, se vi riusciamo, ad accoglierla. Quel che viene visto è semplicemente bello, cattura profondamente. Un animale viene scuoiato, ma quale splendore si rivela! Vengono mostra- ti fiori di carne, morbidi muscoli, umidi, caldi, colorati come le rose, spesso dai riflessi madreperlati e sangue caldo, eccitantemente vivo, acuto, stridulo, scarlatto, sprizza dal corpo e si riversa su teli bianchi. Il corpo dell’animale viene fatto a pezzi. Con coltelli affilati vengono attentamente tagliate e alzate le pareti addominali che contengono le budella. UN FIORE VIENE SVENTRATO, PETALI DI CARNE ROSA TEA si schiudono. Carne di rosa tea, vischioso color rosso-uovo. Sostanze simili al tuorlo, giallo-polline, mielose. La sacca dello stomaco diventa visibile. Gli intestini tremolano molli, fumanti, caldi e gelatinosi, come muscoli guizzanti, facilmente vulnerabili come l’epidermide su un liquido denso, sulla quale si versano delle gocce di succo di limone. Sussulto di nervi, color garofano. In questo bouquet di fiori composto di carne viene compresa tutta la gamma dei colori, da quelli della lingerie rossa, dalle cromie rosate e ancora tiepide del corpo di donna, alle tonalità viola azzurro, violetto e ciclamino fino ai toni verdi. Gli intestini pesanti e colmi di escrementi cadono mollemente umidi a terra mentre il toro viene issato. Dal corpo viene strappata la carne dei polmoni, colorata di rosso cinabro vivo, inumidito dal sangue pompato, arterioso e ossigenato. È come se grandi quantità di tulipani rossi, gladioli e polpa di rosa cadessero dal corpo spaccato per terra. Tutte le cromie dei fiori cadono sul pavimento insieme alle interiora. I colori vengono irradiati dall’interno delle sostanze. Il giocatore partecipa tramite l’osservazione, interiorizza tutto e lo percepisce fino alla interna essenza della sostanza, che è la mutazione oltre il divenire e perire. È semplice- mente bello vedere i nostri organi interni, i polmoni, il cuore, i reni, il fegato, lo stomaco, gli intestini, i vasi sanguigni e la LINFA VITALE del sangue. 

Sempre di nuovo è il colore che fa sì che gli organi interni risplendano anche se normalmente sono celati alla luce. Similmente accade ai pesci degli abissi, che sono forniti dei colori più sfavillanti nell’oscurità più recondita del mare. Sarà che i colori hanno una funzione 

Comprendere la mistica dell’essere, l’affermare e capire il cambiamento del mondo, vuol dire una metafisica che viene portata fino alla dimensione dell’evento. 

9. Il guardare è posto in strettissima relazione con tutto quanto finora detto, attraverso una presa di visione intensa del mondo circostante, veniamo tratti nella profondità dell’essere. Poniamoci oltre la dimensione tragica dell’atto drammatico davanti all’evento da osservare, proviamo ad avere un’impressione esteti- ca senza che contenga un significato e, se vi riusciamo, ad accoglierla. Quel che viene visto è semplicemente bello, cattura profondamente. Un animale viene scuoiato, ma quale splendore si rivela! Vengono mostra- ti fiori di carne, morbidi muscoli, umidi, caldi, colorati come le rose, spesso dai riflessi madreperlati e sangue caldo, eccitantemente vivo, acuto, stridulo, scarlatto, sprizza dal corpo e si riversa su teli bianchi. Il corpo dell’animale viene fatto a pezzi. Con coltelli affilati vengono attentamente tagliate e alzate le pareti addominali che contengono le budella. UN FIORE VIENE SVENTRATO, PETALI DI CARNE ROSA TEA si schiudono. Carne di rosa tea, vischioso color rosso-uovo. Sostanze simili al tuorlo, giallo-polline, mielose. La sacca dello stomaco diventa visibile. Gli intestini tremolano molli, fumanti, caldi e gelatinosi, come muscoli guizzanti, facilmente vulnerabili come l’epidermide su un liquido denso, sulla quale si versano delle gocce di succo di limone. Sussulto di nervi, color garofano. In questo bouquet di fiori composto di carne viene compresa tutta la gamma dei colori, da quelli della lingerie rossa, dalle cromie rosate e ancora tiepide del corpo di donna, alle tonalità viola azzurro, violetto e ciclamino fino ai toni verdi. Gli intestini pesanti e colmi di escrementi cadono mollemente umidi a terra mentre il toro viene issato. Dal corpo viene strappata la carne dei polmoni, colorata di rosso cinabro vivo, inumidito dal sangue pompato, arterioso e ossigenato. È come se grandi quantità di tulipani rossi, gladioli e polpa di rosa cadessero dal corpo spaccato per terra. Tutte le cromie dei fiori cadono sul pavimento insieme alle interiora. I colori vengono irradiati dall’interno delle sostanze. Il giocatore partecipa tramite l’osservazione, interiorizza tutto e lo percepisce fino alla interna essenza della sostanza, che è la mutazione oltre il divenire e perire. È semplice- mente bello vedere i nostri organi interni, i polmoni, il cuore, i reni, il fegato, lo stomaco, gli intestini, i vasi sanguigni e la LINFA VITALE del sangue. Sempre di nuovo è il colore che fa sì che gli organi interni risplendano anche se normalmente sono celati alla luce. Similmente accade ai pesci degli abissi, che sono che va al di là della loro visibilità? Il O.M. Theater è una grande festa per gli occhi. 

«Il mangiare condiviso è un’azione simbolica di comunione... tutto quello che è godere, appropriarsi e assimilare è mangiare, o il mangiare è piuttosto nulla più che un appropriarsi. Qualsiasi godimento dello spirito può essere perciò espresso con il cibo. Nell’amicizia ci si nutre per davvero del proprio amico oppure si vive di lui. È un autentico tropo, il voler sostituire il corpo con lo spirito e il voler assaggiare nel corso d’una cena commemorativa la carne d’un amico in ciascun boccone con temeraria, soprasensibile forza d’immaginazione e assaporare il suo sangue in ciascun sorso bevuto. Per il gusto molle dei nostri tempi questo certamente ci pare barbarico – ma chi ci esorta a pensare subito a del sangue e delle carni crudi, deperibili? ... e sono il sangue e la carne davvero qualcosa di così ignobile e ributtante? In verità vi è più dell’oro e dei diamanti, e i tempi non sono più così lontani, nei quali si avranno significati più aulici del corpo organico. 

Chi sa, quale elevato simbolo è il sangue? Proprio il ribrezzo delle componenti organiche permette di condurci verso qualcosa di elegiaco in esse. Rabbrividiamo davanti ad esse come davanti a degli spettri e presagiamo con orrore infantile in questa curiosa commistione un mondo misterioso, che potrebbe essere una vecchia conoscenza. 

Ma per tornare alla cena commemorativa – non si potrebbe pensare, che il nostro amico ora fosse un’entità, la cui carne possa essere pane e il cui sangue vino?»

L’interiorizzazione ha qualcosa di tragico, termina con la morte di colui che viene inglobato. Il metabolismo si svolge in noi in modo irrispettosamente tragico. L’uccisione del Dio è collegata con il fatto, che la sua carne deve essere mangiata e soltanto dopo l’assimilazione, secondo il mito, avviene la risurrezione per tutti noi. La nostra stessa morte è l’inglobamento nella terra e nel mondo circostante, nella creazione che ci contorna. I sensi accesi e in piena funzione, se differenziati e condotti dai pensieri, ci trainano nel mondo, nel nostro evento creativo, nel nostro mistico essere tutt’uno con il creato. Ci conducono verso l’interiorizzazione con l’universo, perché il mondo interiore ed esteriore possano essere anche fisicamente uniti. Da questo deriva la grandezza di un pasto condiviso, l’essere senza tempo della festa dell’eucarestia, dove Dio, simbolo dell’intera creazione, che inizialmente rappresenta per il fedele il mondo esteriore, dona il suo corpo per venire assimilato, affinché l’esterno, e con esso l’essere supremo, possa penetrare nell’io del fedele, che con ciò si apre a sua volta in Dio e nella creazione . Vedere e, soprattutto, utilizzare correttamente i sensi significa volontà di assimilazione del mondo esteriore (nel vero senso della parola) e non vivere da automi nello spazio e nel tempo senza una realtà esperenziale, per non dire addirittura un infelice vegetare. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Claudio Parmiggiani

May 3, 2007 de'Foscherari
claudio parmiggiani galleria de'foscherari 2007.jpg

Gloria di cenere- 3 maggio - 3 giugno 2007

Proseguendo nel programma espositivo avviato con la mostra “Essenziale all’arte” , in cui sono state avvicinate tra loro negli ambienti rinnovati della Galleria De’ Foscherari le opere di Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro e Claudio Parmiggiani, giovedi 3 maggio si aprirà al pubblico una mostra personale di Claudio Parmiggiani. Chiamato a un nuovo impegno, l’artista ha concepito una triade emblematica di lavori in cui ciascuna opera è traguardo all’altra, sia in senso estetico che in senso spaziale. Il ‘piano’ che si viene a determinare è quello di una tensione etico-estetica quasi palpabile, poiché ogni opera è densissima fonte di messaggi che sembrano voler valicare la sfera puramente simbolica per divenire morfologia di un pensiero ‘resistente’. Con esso, attraverso le sue opere Parmiggiani affronta, con risolutezza e gradi crescenti di vigore, invisibili ma reali insidie presenti nella distrazione, nell’indifferenza e nel cinismo odierno. La costruzione di ogni forma richiama l’artista a una gravità oggettiva che distingue le proprie immagini da quelle dequalificate di significato e ‘scaricate’ in modo alluvionale davanti alla percezione individuale da innumerevoli fonti produttive dell’inquinamento mediatico. In occasione della mostra Gloria di ceneredi Claudio Parmiggiani sarà edito un catalogo pubblicato dall’editore Allemandi di Torino, con scritti di Pier Giovanni Castagnoli, Bruno Corà, Angelo Guglielmi.

View fullsize claudio parmiggiani galleria de'foscherari 2007.jpg
View fullsize claudio parmiggiani galleria de foscherari.jpg
View fullsize caludio parmiggiani altair galleria de foscherari .jpg
View fullsize parmiggiani galleria de'foscherari.jpg
View fullsize claudio parmiggiani galleria de foscherari .jpg

In silenzio a voce alta

Desidero dire alcune parole che solo indirettamente parlano di questa opera poiché un’opera è sempre un viaggio verso il tutto e verso il nulla e nessuna parola è in grado di svelare quel mistero che è la sua vita profonda e il suo infinito.

Posso solo parlare della sua forma visibile,premettendo che un’opera non è mai un gesto di buona educazione, né tranquillizzante, né ottimista ma un gesto duro, radicale, estremo. È un’opera, questa, fatta di cenere, di fumo, di aria, di luce, di fuoco. Un’opera immateriale, fatta di silenzio e con la materia del tempo. Un’opera fatta di parole bruciate. Delicata come le ali di una farfalla. Farfalla in greco si traduce psyché e psyché significa anche anima. Tecnicamente, si è trattato di costruire per distruggere e distruggere per costruire una nuova realtà. Un’allegoria, una metafora, un percorso da una dimensione fisica ad una dimensione metafisica. Osservare il tempo che lascia la sua impronta, che disegna con la sua sperduta immaginazione. Lavorare con tutto ciò che si disperde, che è impalpabile, imprendibile, con quello che c’è di più duraturo: l’ombra, la cenere, la polvere. Vorrei anche sottolineare, nell’opera che qui ho presentato, l’importanza che ha per me lo spazio. Non solo lo spazio dell’opera ma l’opera dello spazio. La realtà di un’opera comincia al di là di ciò che di essa è visibile. Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi?

Rivolgo queste domande perché porsi il problema dello spazio dell’opera significa porsi non solo il problema di uno spazio formale, estetico ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico dentro il quale l’opera andrà a situarsi. L’opera, come l’artista, è spesso prigioniera di un mondo che non le è amico e in questo mondo lotta per difendere non solo uno spazio materiale ma uno spazio spirituale, quell’attimo assoluto che realizza la sua libertà. Provengo da un Paese, da una formazione, da un’esperienza artistica e da una forma di società diverse dalla vostra. Quello che nelle mie parole potrà sembrare distante, forse paradossale, estraneo alla vostra esperienza, oppure un limite, presuppone questa consapevolezza. Parlo soprattutto di ciò che io vivo.

Ho voluto, nel titolo di questa opera, dare un particolare accento alla parola silenzio. Quando parlo di silenzio non intendo il silenzio della mia voce, un silenzio rinunciatario, ma un silenzio dentro la forma della mia opera. Parlo del silenzio come di una materia. Considero il silenzio una presenza ed un gesto oggi necessari all’interno di un discorso sull’arte e, anche se potrà sembrare un paradosso, un modo di assumere una posizione. Il rifiuto e una reazione a quel linguaggio inaccettabile che fa del clamore, del gratuito e della superficialità il suo principale obbiettivo artistico. Considero quindi il silenzio un modo di rendere imprendibile il pensiero, un segno di fermezza, poiché silenzio non significa solo silenzio ma significa anche non concedersi e non concedere nulla. C’è l’esigenza che l’arte di oggi, in gran parte asservita alla moda, esca da molti compromessi e ambiguità, così come, invece di attardarci attorno ad obsolete e stanche formule stilistiche, dovremmo prendere innanzitutto coscienza di una nostra globale condizione tragica e sentirci piuttosto come condannati al rogo che chiamano attraverso le fiamme.

Questo asservimento credo sia principalmente alla base della demoralizzazione attuale e riguarda, appunto, una forma di cultura che si sottrae al preciso dovere di essere tale. Mai come ora si è parlato tanto di cultura ma di una cultura che non coincide con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. Invece di identificarci con disinvoltura in quella che si potrebbe definire ‘cultura dell’ottimismo’, dovremmo forse riflettere e osservare, ad esempio, che il mondo ha fame e che non si preoccupa di questa sedicente cultura. La cosa più urgente non mi sembra l’ubriacarsi in una cultura dell’effimero la cui esistenza, per usare le parole di Antonin Artaud, non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio o dall’angoscia della fame, ma estrarre da ciò che crediamo sia davvero e profondamente la cultura o l’arte, idee la cui intensità e forza siano pari a quella della fame. Per un artista l’arte, quando è vissuta con verità, è l’unica, anche se silenziosa, forma di esistenza e di resistenza. Per la società, per quella cultura dell’effimero di cui parlavo e nella quale ci rifiutiamo di riconoscerci, poesia e arte, quella poesia e quell’arte che amiamo, che difendiamo e attraverso le quali ci opponiamo, sono parole spesso dimenticate. Sono problematiche, pongono domande, non danno risposte, offrono solo dubbi. Per chi ha una responsabilità politica e quindi etica, tenerne conto, difenderle come un dovere e sentirle come un bene, significa accettare un rischio, nella consapevolezza che un bene spirituale è, in sé, una ricchezza, che cultura è essenza di benessere. Noi abbiamo bisogno di questa arte. C’è un’eredità spirituale che non deve essere dissipata. Un dovere e una conseguente responsabilità che gli artisti devono assumersi. Non smarrire il senso profondo del loro passato artistico, storico e morale. L’arte deve ritornare ad essere arte, tornare a parlare al cuore dell’uomo.

Nell’infanzia del tempo l’arte fu preghiera. Poco è rimasto di quella infinita bellezza. Ora non siamo più capaci nemmeno di pregare. Come ciechi camminiamo tra le rovine. Abbiamo bisogno di ricostruire.

​Claudio Parmiggiani

Testo letto da Claudio Parmiggiani al Museo Nacional de Bellas Artes, La Habana, in occasione della inaugurazione della sua mostra Silencio a voz alta, 24 marzo - 4 giugno 2006.

Tags Parmiggiani, Galleria de' Foscherari

Calzolari - Fabro - Parmiggiani

December 16, 2006 de'Foscherari
Calzolari galleria de foscherari .jpg

Essenziale all'arte - 16 dicembre 2006 - 16 aprile 2007

Con un progetto originale rivolto a tre protagonisti dell’arte contemporanea, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro e Claudio Parmiggiani, la mostra dischiude un nuovo ciclo di attività espositive, il cui intento è fornire occasioni di riflessione sull’opera di artisti il cui lavoro particolarmente significativo per comprendere l’odierna fase artistica e culturale.Con il saggio Essenziale all’arte, infatti, Bruno Corà, a cui è dovuta la proposta e la cura dell’importante mostra collettiva, compie una disamina critica dello statu quo dell’ambito artistico, fornendo alcune posizioni e punti di vista che, oltre a trovare fondamento nell’opera dei tre artisti, rivendicano una autonoma lettura delle loro opere nel contesto generale del panorama artistico nazionale e internazionale.Con un repertorio di opere scelte per la circostanza e allestite con l’intervento diretto degli artisti, l’episodio avvia il carattere delle future iniziative della galleria, che saranno improntate a un rinnovato impegno culturale, sulla scia di una tradizione operativa che negli anni Sessanta-Settanta giunse a un apice e a una centralità di cui si intendono sviluppare le motivazioni e i risultati.Per la significativa scadenza sono previste le presenze degli artisti e un catalogo che, raccogliendo tutti i documenti relativi alla mostra (testi e immagini), di fatto avvia una nuova collana editoriale della Galleria dovuta a Gli Ori di Prato. 

View fullsize Pierpaolo Calzolari, Donna fiore
View fullsize calzolari galleria de foscherair 3.jpg
View fullsize Pierpaolo Calzolari, senza titolo
View fullsize calzolari galleria de foscherari 1.jpg
View fullsize calzoalri galleria de foscherari 4.jpg
View fullsize 10.jpg
View fullsize calzolari galleria de foscherari 5.jpg
View fullsize calzolari galleria de foscherari 6.jpg
View fullsize Claudio Parmiggiani , Campo dei fiori
View fullsize Luciano Fabro, Italia porta
View fullsize galleria de foscherari fabro 4.jpg
View fullsize galleria de foscherari fabro 3.jpg
View fullsize galleria de foscherari fabro2.jpg
View fullsize galleria de foscherari fabro.jpg

Bruno Corà 

Premessa

Espressione sospesa in una diretta proposizione è quella che qui preme rendere presente in un frangente come l’attuale in cui, attorno all’arte e ai suoi autori, s’addensano rumori di ogni specie, quasi un frastuono di proporzioni mondane, certamente molti equivoci. Chi pone la perentoria formula, a metà assertiva e a metà auspicale, lo fa avviando di fatto una riflessione che, se da un lato manifesta una imperativa necessità in termini estetici, dall’altro s’aspetta che gli interlocutori scelti forniscano significativi dati idonei, a partire dalla propria esperienza e, assieme alle opere, a orientare il cammino e il pensiero di alcuni di noi.

Contaminazione verso vanificazione

Sono state molte le cause che negli ultimi vent’anni hanno consentito l’invasione del campo artistico da parte di numerosi soggetti, i quali, mossi da differenti appetiti ed esigenze diverse dall’interiore domanda che l’arte pone ai suoi iniziati, come erbe infestanti si sono insediati attorno al suo organismo soffocandone la libera crescita e l’espansione incondizionata. Qui si intende il vasto caravanserraglio di comparse provenienti dagli ambienti più impensabili, alla ricerca di ossigeno fresco in epoca di trasformazione, transizione, crisi e mutamento dei codici identificativi. Dall’economia alla moda, dalla comunicazione all’informazione, dalla scienza alla religione, dalla politica alla critica, molte identità, esaurita la propria specifica spinta motivazionale, hanno preso d’assalto la dinamo inesauribile dell’arte, nella volontà di suggerne energia e vitalità. Non vi è campo della pubblicità o delle offerte commerciali che non usi la parola ‘arte’ per diffondere e rendere attraenti i propri prodotti, con il risultato di rendere impronunciabile, un osceno passe-partout quella parola, tanto evidente è la menzogna a cui essa deve fare da paravento. Nell’alta finanza, nell’obiettivo di conferire un crisma di enunciazione leonardesca al proprio agire, si usa l’espressione “central banking is an art, not a science”. Per dare credibilità e diffusione autorevole a una nuova rubrica dedicata al profumo e alla sua produzione, il «New York Times», con una ambigua campagna di promozione, presenta quelle attività come arte. In alcuni casi, ai prodotti più lontani da essa, per esempio un’automobile, si è perfino attribuito il nome di un artista! Senza considerare che né l’artista, né l’arte, in condizioni di radicale autenticità, hanno mai messo al mondo qualcosa che somigli a un prodotto deperibile, a una merce destinata alla rottamazione. Viene da pensare che il tentativo di identificare un’auto, un abito, un piano finanziario con un’opera d’arte sia stato l’espediente, non ingenuo, di qualcuno che in tal modo ha aspirato all’accrescimento di valore e al prolungamento di vita di oggetti altrimenti considerati scaduti all’esaurirsi della loro funzione Qui non si intende aprire una riflessione estetica che porti al chiarimento della diversità diametrale che distingue una merce da un’opera d’arte. Ma poiché non è nemmeno consigliabile definire in astratto cosa sia arte e cosa non lo sia, si rinvia tale distinzione proprio alla manifestazione dell’opera pienamente convinti che solo attraverso l’atto artistico si possa giungere all’autodefinizione. Peraltro, in arte, nonostante la diffusa disinvoltura ricettiva che la circonda, non si danno né saldi né sconti: al contrario, estranea a ogni pratica di liquidazione, essa piuttosto osserva imponderabili processi e criteri di crescita di valore esponenziale sine limite.

Questo accenno preliminare di minimo sgombero del campo vuol essere indicativo – se non altro – di quel macroscopico fenomeno di invasività dell’esterno all’interno dell’arte, effetto di un costume ‘partecipativo’ che sembra direttamente proporzionale all’idea di ‘morte dell’arte’, luogo sempre più comune connesso alle società di massa e ancor più, nell’ora del globalismo già agonizzante, alle comunità dei cosiddetti ‘creativi’, nuove identità capaci di intrattenere un enorme numero di soggetti in quella bolla di sapone esistenziale denominata ‘tempo libero’.

Individuare cosa sia essenziale all’arte in un frangente come l’attuale è compito esclusivo degli artisti. Assegnare criticamente, in modo inequivocabile, a loro e solo a loro la responsabilità di tracciare nuovamente il sentiero che riporti al luogo delle epifanie e delle stupefazioni vale a contribuire, come in una profilassi, a sgomberare il campo da fetazioni e focolai di inutili e dannose epidemie. È l’officiante, in ogni liturgia, ad amministrare il rito di fronte alla comunità, non certo i sacrestani o i chierici! Restituita la debita centralità all’opera e all’artista, resta da compiere l’individuazione di ciò che sia essenziale all’arte per espandere nuovamente la sua indescrivibile e complessa azione. Non vi sono attributi sbrigativi che facciano le funzioni di sintesi delle qualità odierne dell’arte. L’autogestione, resasi evidente nei numerosi episodi delle “Micce” tra il 1992 e il 1993, ha già fatto giustizia del sedicente e insidioso concetto di ‘sistema dell’arte’ e delle sue pretese sociologiche. Il discorso, com’era ovvio, torna a essere di pertinenza dell’autore dell’opera, unico motore generativo essenziale alla sua manifestazione. Ma, ciò detto, è pur vero che se l’esterno ha potuto così invasivamente occupare il campo destinato all’interno, è possibile ritenere che lo abbia fatto con il concorso di molti, compresi taluni artisti, con la loro tolleranza o attraverso la loro esitazione, al limite di una complicità; oppure, in certi casi, si può pensare che all’origine delle ‘contaminazioni’ vi siano stati numerosi episodi di debolezza nella capacità di creazione e dunque di autosalvaguardia dell’opera e vi sia stata una espressa volontà di alcuni artisti di venire a compromessi con l’esterno al punto di introdurre il “mondano” nella propria opera. E questo, ancorché rischioso, appare meno grave di un’invasione di campo subita. Ma allora, si potrebbe ritenere che quando vi è l’espressa volontà del mondano a invadere il dominio dell’arte essa corra seri rischi e, al contrario, quando è l’arte stessa a richiederne, compromissoriamente, un’invasiva presenza, tali rischi non sussisterebbero, anzi, per l’arte tale invasione sarebbe portatrice di fecondità? Quale deve essere insomma – dopo aver preso atto delle più o meno deliberate ‘contaminazioni’ – la relazione col mondo? E, a partire dalle profonde diversità che distinguono le manifestazioni del mondo, a quale di esse appare idoneo o scongiurabile che gli artisti si rivolgano?

Una vasta serie di quesiti di questo e altro tipo si sollevano sul piano della riflessione e, ad essi, non è possibile fornire una risposta surrogando o scavalcando la facoltà oracolare dell’opera. Ogni scorciatoia estetica per quanto acuta, non ha la facoltà di ri-assumere la domanda nel grado più alto e simultaneamente mostrarne, come fa l’opera, sospendendo ogni giudizio, la sua ontologica entità davanti ai nostri occhi. Il fenomeno che fa la sua apparizione nell’opera non è sostituibile per verba, ancorché esse siano opera, ovvero ars poetica.

Se, dunque, resta l’artista a indirizzare il cammino dell’arte, pur costellato da interferenze e ingerenze di ogni tipo, indebitamente esercitate o perfino talvolta invocate, se è soprattutto con l’opera che egli può indicare quel cammino e se, infine, a nessun altro può essere ascritta tale facoltà, quali sono, in ultima analisi, le attese che dall’arte intende veder corrisposte chi ad essa si rivolge?

Centralità dell'opera

Non si può dimenticare, una volta provato, il sentimento di profonda estraniazione e simultaneamente di vaga coscienza che affiora ogni volta al cospetto di un’autentica opera d’arte. I sensi e l’intelletto percepiscono qualcosa che mentre li appaga e acquieta già li stimola e inquieta. Uno sconcertante ma sottile richiamo non definibile, spesso profondo e durevole. Ciò che più sorprende è la sostanziale indifferenza del medium e della modalità linguistica capaci di suscitare lo stesso sentimento e, nondimeno, il fatto che i dati temporali dell’opera divengono secondari nel grado di intensità della percezione, al punto che sovratemporalità dell’opera e ‘non-tempo’ della coscienza, in un attimo, si trovano sulla stessa frequenza. Per i sensi e l’intelletto, nell’istante fruitivo dell’opera, si oscura ogni data. Le facili obiezioni riferibili a enunciati e proposizioni di certa arte concettuale o digitale, il cui potenziale di stupefazione è inesistente o quasi, sono eludibili con l’ovvia considerazione che non solo i sensi ma anche l’intelletto trae il suo piacere nel gioco percettivo.

Infine, ciò a cui non si rinunzia è che l’arte provochi sempre un’emozione seppur a gradi e livelli diversi.

Poiché, se ciò continua ad avvenire, sorge il quesito: verso cosa nuovamente si muovono i sensi e l’intelletto? Senza voler scomodare tutto il pensiero estetico postmetafisico, si direbbe semplicemente: a evidenziare e colmare una mancanza, della cui natura a configurare l’entità – e qui si approda a una circolarità enigmatica – si farebbe carico proprio l’opera d’arte. Ma se l’opera ha tale potere, a cosa essa non può e non deve rinunciare per mantenere integra la sua straordinaria facoltà?

Come a un atleta, all’artista che ambisce al primato dell’opera, sono richieste prestazioni straordinarie. Certamente la conoscenza di regole e fondamenti, una vocazione, una dedizione, una possessione, una perdizione, una lucidità e una passione. Perciò se ne osservano le prove, le mete, i risultati. Ma non basta: appare inderogabile ribadire di non voler avere niente a che fare con chi vorrebbe l’arte ancella a vario titolo, usando biecamente le sue più autentiche domande, i suoi dubbi e le possibili crisi, per tramutarli in risposte ‘funzionali’, certezze sbrigative, rassicurazioni assuefacenti. Nell’acuirsi delle contraddizioni molteplici dei nostri giorni, in un momento in cui all’arte e all’artista si rivolgono troppe attese interessate, non sarà il caso di affermare che ogni confronto eidetico dovrà avvenire al livello della qualità linguistica dell’opera? Riportare a questa frontiera ogni argomentazione e scambio possibile non è il modo più efficace per la salvaguardia di quell’entità che nell’opera d’arte si rende manifesta?

Nell’impresa artistica, costanza, perdita, fallimento, sicurezza, infallibilità e dubbio s’intrecciano continuamente. La radicalità eversiva del gesto, assieme alla tensione, all’autenticità, non garantiscono la riuscita né dell’opera né del destino. Troppi esempi dimostrano che all’eroicità degli atti non ha corrisposto subito una fortuna critica. Ma per tutti quei casi e per taluni giunti per sino al dramma o, ancor peggio, alla tragedia, è riconosciuta la magnitudine dell’integrità etica. Di fatto se, pur giungendo alle sue inconfondibili qualità, all’arte non arridesse il successo, viene da chiedersi, potrebbe essa però sopravvivere e reggere senza quell’integrità?

Nessuno vuole santificata l’arte né si richiama per essa una qualsiasi morale, ma sembra plausibile aspettarsi che essa sia fieramente eversiva e angelica, autorevolmente fondata e pronta ad abbandonare, in nome della libertà, ogni lusinga.

Erede di una mitica segretezza, come potrà l’arte eludere le premesse della sua origine rivoluzionaria? Non è la sua consumata ma eterna verginità la garanzia di una sempre possibile diversa esperienza in nome di un’eventuale scoperta?

Interlocutori, gli autori

Come premesso, e allo scopo di osservarne l’opera, si è ritenuto indispensabile far seguire a queste considerazioni il contributo attivo di alcuni artisti nel cui sodalizio si sono trascorsi numerosi anni di attività e molte esperienze. La scelta si rivolge in questa circostanza alle opere di Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro e Claudio Parmiggiani, nei cui percorsi individuali costantemente, ma specie negli ultimi anni, sembrano evidenziarsi preoccupazioni ineludibili per l’elaborazione dei principi e dei criteri formativi dell’opera, non separabili dalla sua valenza ‘politica’, in quanto parametro civile di esponenza culturale.

Osservandone concretamente le singole traiettorie di lavoro, si rende evidente che se dalla metà degli anni Novanta a oggi, Calzolari, dopo l’intensa esperienza dell’Arte Povera che – nella Galleria de’ Foscherari – ebbe una sede di esplicitazione poetica, spintosi a individuare nuove ragioni fondative della propria azione, ha intrecciato non solo differenti esperienze plastiche con la danza e il video, iniziando un radicale e trasparente riesame della forma e dell’immagine plastica, ma anche una meditazione disciplinare sulla natura morta e la valenza sensuale che pur in essa si esibisce, ciò è avvenuto perché essere artista per Calzolari significa anzitutto interrogarsi sulla qualità dei procedimenti concettuali elaborativi e sulla declinazione sensibile di una normatività osservata ma continuamente innovata. Da quella soglia epifanica luminosa, soprattutto per ampiezza di orizzonte dischiuso ai propri sensi, quale è stato il poema di Benvenuto all’angelo, 1967, agli odierni pronunciamenti aurorali per la consueta nevralgia che li distingue e li anima, Calzolari pone un richiamo sui principi di un fare artistico strettamente aderente all’esigenza poetica senza la quale, ai suoi occhi, l’opera appare priva di essenza vitale, di ragioni immaginarie e generative. Nell’incontro attuale di Bologna, infatti, Calzolari suscita nuovamente, dopo circa trent’anni da Day after Day, l’atmosfera delle sue più intense azioni, mettendo in relazione nell’ambiente sia la fragranza riverberante del corpo vivo di una modella, sia l’elaborazione plastica di un tavolo e di un lavoro realizzato col tradizionale mollettone, collocato al muro. Tanto appare ‘sognata’ e irreale la presenza di quel corpo femminile di cui, rovesciando le vesti e tenendole sollevate verso l’alto con un’aureola di palloncini rigonfi d’aria, mostra le fattezze dalla vita in giù, quanto, non di meno, spandono attorno a sé ogni tipo di vibrazione le poche ‘cose’ raccolte sul tavolo, essudate ed essiccate, cappello irrorato d’acqua o guscio di noce aperta, scelte a commuovere la percezione disposta a stupefarsi. D’altronde il paradigma di forme e immagini offerto nelle precedenti mostre presso le gallerie Stein e Cardi a Milano, questo stesso anno, ha dispiegato una lectio sui fondamenti, ancor prima che morfologici relativi alla pittura e alla scultura, di carattere ideale e poetico delle due forme. L’evento in ogni sua specifica articolazione operativa, chiarissimo ed esemplare, mette in risalto, come su un tavolo anatomico, i princìpi dell’elaborazione plastica, le esigenze compositive, le regole armoniche, il ‘che cosa’ della visualizzazione e il ‘perché’ dei corpi messi in forma.

Non diversamente, Luciano Fabro, dopo le celebri mostre romane Io (l’uovo), 1978 e il Giudizio di Paride, 1979, in cui implicitamente si era indotto a ‘ripetere ‘cos’è la scultura’, nel 1980, avviando il ciclo degli habitat, pose la questione del contesto spaziale elaborato esso stesso come opera insieme all’opera. Anche in quella e in successive creazioni di habitat, il richiamo alla ratio civitatis albertiana muoveva segnali in direzione di un ‘che fare’ che non tardò a giungere. Nell’83, dopo aver iniziato a insegnare a Brera, metteva i suoi allievi di fronte al celebre interrogativo, privo però del punto di domanda: intendendo il ‘che fare’ nel senso di ‘come fare’. L’esigenza maieutica derivava in quegli anni dal bisogno di rimettere in chiaro principi basilari dell’atto artistico e non certo gli aspetti che, imprevedibili, ne sarebbero potuti scaturire. Da allora Fabro non ha smesso di affiancare al lavoro una conseguente teorizzazione di esso, soprattutto quando, dopo l’aprile del 1986, a seguito della tragedia di Cernobyl, prima con C’est la vie, a Gand, e poi con Prometeo, a Milano, giungeva a mettere “in visione la caduta del nostro concetto formale che deriva dal concetto geologico cui è legata L’opera odierna installata nella sala d’ingresso della Galleria de’ Foscherari sembra mettere in evidenza alcune delle sue ben note preoccupazioni: il compimento dell’atto artistico come esercizio di responsabilità, la volontà d’interazione non solo con i propri contemporanei, ma anche con chi ha preceduto o seguito la propria azione, il rapporto di continuità umanistica, l’esercizio sottile della ‘sprezzatura’, la difesa del lavoro, le regole di comportamento e altro ancora. Le forme dell’Italia sollevate all’altezza di un architrave occasionale nello spazio con l‘intento di divenire soglia che mette in comunicazione i dati riprodotti del lavoro di alcuni artisti ‘storici’ – da Rosso a Fontana, a Lo Savio – con il lavoro di alcuni artisti più giovani, un tempo suoi allievi, da Protti a Morandini, a Citterio.

Dal canto suo, Claudio Parmiggiani, dopo la folgorante invenzione delle ‘delocazioni’ (1970), non ha più smesso di approfondire la pregnanza dell’invisibile e quell’assenza che, nella definizione delle forme, suscita una più intensa ‘presenza’ loro, soprattutto ai gradi superiori della coscienza meditativa.

Senza rinunciare all’esercizio plastico che nella precoce assunzione delle reliquie dei calchi classici o di parti di essi, in La notte, 1964, orientava già ogni gesto verso il deposito mnemonico della storia dei modelli, luogo immobile ma contaminato con i ‘capricci’ di un contatto con il proprio estro immaginativo, Parmiggiani, con solo nel momento del suo occultamento e sparizione allo sguardo. L’esigeninsistenza, indica la necessità di porre attenzione all’ombra, all’assenza, al silenzio, alla segretezza, infine a differenti modalità di non ostentazione, fino alle azioni che rendono compiuta l’opera za di far coincidere ogni tipo di materiale con l’idea ha spesso trascinato l’opera verso una smaterializzazione che la esalta come quintessenza del pensiero, come luogo dell’anima. Nelle sue più recenti creazioni, a Toulon, a Prato o all’Avana, Parmiggiani ha reso sensibile il silenzio, la polvere, l’assenza delle cose e del tempo.

All’opposto, quasi come segnale odierno di inquietante allarme, il ricorso alla ’pienezza’ esplicita di una forma-emblema rende il suo intervento a Bologna radicale monito, incombente come un rimorso. La grande catasta di libri arsi su cui poggia solenne e cupa la stessa enorme campana di cui si è udito il tragico rintocco nel Labirinto di cristallo del Teatro Farnese a Parma, lascia trapelare, in una dissolvenza mnemonica che ne ingigantisce la statura, l’incappucciata mole del nolano Bruno, arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma. È in questa facoltà di porre in risonanza sopite ma non estinte energie sensibili, che il lavoro di Parmiggiani s’impone con inalterata e distinta efficacia.

Così, pervase tutte di una tensione etica implicitamente politica alla concezione del fare arte, le opere di Calzolari, Fabro e Parmiggiani indicano che l’opera ha un registro essenziale invisibile, al quale ognuno di loro, attenendovisi, la pone in essere. È a questo preciso punto di incontro problematico, prima ancora che formale, inerente un’origine poetica insondabile al quale ogni gesto sembra rivolgersi, che appare necessario oggi porre attenzione e restituire centralità.

agosto-settembre 2006

Tags Calzolari, Parmiggiani, Galleria de' Foscherari

Vasco Bendini

October 15, 2005 de'Foscherari
bendini galleria de'foscherari.jpg

Dell' immagine e del fare arte - 15 ottobre - 15 dicembre 2005

La Galleria de’ Foscherari inaugura la nuova stagione espositiva con una personale del maestro Vasco Bendini . Per l’occasione verranno presentati un ciclo di dipinti eseguiti nel 2004; alcuni di medio formato sono realizzati ad olio su lastra di alluminio e si alternano ad altri di grandi dimensioni eseguiti ad acrilico su tela. Vasco Bendini nasce a Bologna 1922. Difficile riassumere un percorso cosi vasto ed interessante, un protagonista dell’arte italiana degli ultimi decenni.Del suo lavoro hanno scritto tra gli altri A. Emiliani, F. Arcangeli ,E. Riccomini ,M. Calvesi, R.Barilli,Sproccati,Baratta,Boatto,Fossati,Calzolari.Poli,D’Amico,Cortenova,Lambarelli,Trento, Eccher, Guadagnini, Gualdoni, Zuccaro, Castagnoli, Magrelli.

View fullsize vasco bendini - gallaeria de foscherari 2.jpg
View fullsize vasco bendini - galleria de 'foscherari 3 .jpg
View fullsize 008g.jpg
View fullsize vasco bendini galleria de'foscherari 4.jpg
View fullsize vasco bendini - galleria de foscherari 1.jpg
← Newer Posts

galleria de' foscherari © 2025 - p.i. 03746371206