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Galleria de' Foscherari

via Castiglione, 2b
Bologna
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Galleria de' Foscherari
 

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GEORGE GROSZ - LUCA VITONE - BERLIN 192010 -

October 12, 2015 de'Foscherari

 BERLIN 192010 - 31 OTTOBRE 2015 - 10 FEBBRAIO 2016

La mostra nasce dal progetto di Luca Vitone di mettere a confronto due immagini di Berlino: quella sotto la Repubblica di Weimar e quella del periodo della Repubblica Federale dell’unificazione dopo la caduta del muro. Vitone “invita” George Grosz a presentare sue opere che raccontano la città del primo dopoguerra nel momento più effervescente e dinamico di una Berlino in espansione che la vede meta indiscussa, desiderata e raggiunta da autori del cinema, del teatro, della musica, della letteratura e delle arti visive, tanto da farne una capitale mondiale della creatività culturale. In quel lungo decennio, tra la fine degli anni Dieci e gli inizi dei Trenta, Berlino è anche una laboratorio politico che il mondo guarda con curiosità e apprensione, fino alle decisive elezioni del 30 gennaio 1933.

Insieme a un olio e a preziosi disegni e acquerelli di Grosz, Vitone presenta parte di una sua serie di opere dedicate alla città tedesca in cui racconta una personale interpretazione di come ha vissuto il cambiamento di Berlino da prima del muro, grazie a un soggiorno estivo avvenuto nel 1985, al ritorno nel 1996 per una borsa di studio e successivamente sempre più spesso fino a decidere di trasferirsi definitivamente. Con il crollo del muro, Berlino torna a essere un’attrattiva per la ricerca culturale internazionale tanto da diventare per una seconda volta meta desiderata per molte personalità di discipline e ambiti diversi. L’immaginario collettivo non tocca solo l’aspetto della cultura, ma necessariamente anche quello politico e la città diventa laboratorio di un atteggiamento utopico che tenta di trasformare l’aspetto sociale dell’abitante in una figura consapevole della propria autonomia e libertà individuale. Aspetti di un socialismo libertario opposti a ciò che era avvenuto, mediante il dogma, con la realizzazione del socialismo di stato che ha governato una parte della città per circa quarant’anni.

Mappe, oggetti che provengono dalla quotidianità e finestre aperte sul mondo sono gli elementi che compongono queste opere, affiancate dai colori della bandiera tedesca e da una giostra di biciclette da cui, pedalando, si può vedere un video che racconta in soggettiva l’attraversamento della ex-Berlino orientale da nord a sud soffermandosi sui dettagli del cambiamento. La mostra si apre esattamente un anno dopo, il 31 ottobre 2014, di quella svoltasi nella Galerie Nagel Draxler di Berlino, in cui per la prima volta sono state esposte le opere della serie “Der Zukunft Glanz” (Lo splendore del futuro) titolo che poeticamente si riconduce al motto italiano di tradizione socialista “il sol dell’avvenire” inesistente nella lingua tedesca.

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MICHELE SAMBIN - LOOKING FOR LISTENING

September 14, 2015 de'Foscherari

 LOOKING FOR LISTENING - 2 OTTOBRE - 24 OTTOBRE  2015

Il titolo della personale di Michele Sambin - Looking for listening - è traducibile da un lato come “guardare per ascoltare”, ma dall’altro può essere tradotto come “cercare per ascoltare”. Nasce quindi la possibilità di una doppia interpretazione che fa riferimento da una parte alla ricerca dell’artista, indirizzata verso particolari modalità di ascolto, che passano attraverso l’udito e la vista. Dall’altra cercare è un’azione che si fa prettamente attraverso gli occhi e in questo secondo caso il titolo funge da monito all’osservatore, un indizio attraverso il quale scoprire il senso delle opere lette solo attraverso l’ascolto del suono e la visione dell’immagine. Sin da qui si può comprendere che per Sambin l’arte non è un oggetto concreto, chiuso in se stesso, bensì un linguaggio intermediale composto di diversi mezzi espressivi - il video, il suono, la pittura, la fotografia, la pellicola, il corpo dei performer - e attraverso l’interazione che l’opera ha con la sua documentazione, sia essa posteriore o precedente. In tutti i casi, infatti, il processo di composizione fa parte e non si differenzia dall’opera e i documenti sono allo stesso tempo materialità e traccia di artefatti destinati a farsi fluidi ed effimeri. In ultimo, il titolo della mostra è lo stesso di un’opera eseguita la prima volta nel 1977 (di cui si parlerà in seguito) scelto appositamente per sottolineare l’altra tematica alla quale Sambin è legato, quella della temporalità. Da un lato il tempo è qui inteso come durata che s’impone allo spettatore, com’è caratteristico delle opere time-based; dall’altro, più idealmente, viene paragonato dall’artista a una spirale che torna su di sé uguale ma consumata, costantemente in divenire. Come il tempo anche l’artista torna indietro spesso sul suo lavoro, riprendendolo, citandolo, rivisitandolo in un continuo aggiornamento che si pone in continuità e non in opposizione con il passato.Per affrontare la complessità dell’operare dell’artista la mostra si articola in quattro parti, in osmosi tra di loro, che rispecchiano il fare di Sambin tra presente e passato e nelle diverse modalità di composizione tra i media artistici e i loro linguaggi. La zona dell’entrata corrisponde alla fase più contemporanea – le opere realizzate sono del 2015; l’artista, attraverso la pittura,analizza e trascrive le specificità dell’immagine video composta da linee e luce così come dai disturbi tipici del mezzo videografico anni ‘70. Si tratta, sin dall’inizio, di una compenetrazione tra due linguaggi, tra due mezzi espressivi e tra due tempi.

 

Vi è poi la video-installazione Oihcceps (1976-2015) composta da due monitor a tubo catodico sovrapposti, da cui sono trasmessi due video - il primo del 1976 e il secondo del 2015 - che danno, entrambi, il titolo all’opera. Anche in questo caso passato e presente sono messi a confronto attraverso l’evolversi del dispositivo tecnologico - bianco e nero/colore, immagine remota/immagine attuale - e mediante le due età nelle quali l’artista realizza i video, segno del passaggio del tempo.

Il percorso si sviluppa poi idealmente verso due opere-progetto disposte specularmente: in una intitolata Looking for listening project 1977 (2015) l’artista sintetizza in forma grafica le varie fasi che sottostanno alla realizzazione della performance eseguita nel 1977 per l’evento Artisti e Videotapes (Archivio Storico delle Arti Contemporanee de La Biennale di Venezia, 1977) e riproposta alla Galleria de Foscherari il giorno dell'inaugurazione della mostra; nella seconda, intitolata Looking for Listening utopia 2053 (2015), Sambin progetta un ipotetico reenactment – letteralmente rifacimento - della performance tra 37 anni, lo stesso tempo intercorso tra la prima realizzazione (1977) e la sua riproposta alla De Foscherari (2015).

Di ritorno dallo spazio dedicato a Looking for listening nelle sue diverse forme e prima di procedere all’ambiente successivo, vi sono i lavori su carta dal titolo Lxl frame, realizzati con trattamenti pittorici di frammenti dei video.

L’ambiente successivo, l’ultimo, è dedicato alla ricostruzione del modus operandi di Michele Sambin negli anni ’70. In un unico monitor sono trasmesse le opere monocanale realizzate tra il 1978 e il 1980 attraverso il sistema del loop, un vero e proprio dispositivo operale che consente all’artista di intervenire sull’immagine video moltiplicando il tempo e lo spazio d’azione.

Come già detto, non è solo l’opera finale che interessa Michele Sambin ma anche, contestualmente, il processo di realizzazione; questo non solo quando egli vanifica la concretezza materiale dell’oggetto artistico in operazioni effimere e processuali, ma anche quando realizza documenti – a loro volta opere - in forma grafica. La parete alla sinistra del monitor è quindi dedicata ai disegni che l’artista realizza in occasione della Settimana Internazionale della Performance (Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, 1977, Renato Barilli), a testimonianza dell’azione Autoritratto per quattro camere e quattro voci. In essi è evidente la chiarezza espositiva con cui Sambin si rivolgeva (e rivolge) al pubblico, al fine di attivarne la capacità critica; l’artista dota gli spettatori di tutti gli strumenti necessari per l’analisi del suo linguaggio e il suo fare è spesso didattico.

A conclusione ideale del percorso espositivo vi è la serie Disegni Blu (1980-1985) che rende conto della crisi nei confronti delle reali capacità di un mezzo di comunicazione quale quello televisivo; sarà questa fase che porterà Sambin a dedicarsi prevalentemente, negli stessi anni e in seguito, al teatro multimediale (Tam Teatromusica). La TV non più pensata come strumento in mano agli artisti alla ricerca di linguaggi anticonvenzionali, ma piuttosto come mezzo volto alla massificazione, è diventata autoreferenziale, parla solo con se stessa e si ammala.

Lisa Parolo


IL CINEMA D'ARTISTA ITALIANO DALL'AVANGUARDIA ALLA VIDEOARTE

May 20, 2015 de'Foscherari
Gino de Dominicis

Dopo il felice esordio alla sala Cervi con la proiezione di Umano non umano (Mario Schifano, 1969), la rassegna Il cinema d’artista italiano dall’Avanguardia alla Videoarte prosegue presso la Galleria de’ Foscherari, dove, mercoledì 13 alle ore 18, avrà luogo l’evento programmaticamente intitolato Maurizio Camerani 1979-’89: un video, due video sculture e quattro disegni. 

Prende avvio così una selezionata documentazione della nascita e dei primi sviluppi della Videoarte (anni settanta e ottanta), che si articolerà sistematicamente per tutti i mercoledì fino al 10 giugno. Per realizzare nel modo migliore questo risultato la Galleria de' Foscherari e la Cineteca, promotori della rassegna, hanno coinvolto nell’impresa l’Archivio Storico della Biennale di Venezia, la Galleria Il Cavallino, sempre di Venezia, il CentroVideoArte di Ferrara e la Casa Totiana, che hanno generosamente messo a disposizione le loro ricche collezioni. 

Si deve anche sottolineare che le opere presentate non sono più state viste da quando furono realizzate e che anche allora ebbero una circolazione limitata. L’interesse storico-filologico si accompagna così al desiderio di verificare direttamente la sperimentazione con la quale cineasti, pittori, musicisti e scultori tentarono di opporsi all’onda lunga della restaurazione subentrata all’esplosione eversiva culminata nel maggio francese. L’impegno di questi artisti è, infatti, la ricerca di nuove forme espressive, di linguaggi alternativi, di una forma artistica che vada al di là della marcusiana “comunicazione dell’interruzione della comunicazione”.

E’ parso giusto iniziare questa sintetica storia dei più significativi sviluppi della Neoavanguardia cinematografica con la essenziale retrospettiva di Maurizio Camerani, uno dei protagonisti della sperimentazione effettuata nel corso di molti anni dal Centro ferrarese con risultati apprezzati in tutto il mondo. Segnale, una delle due video sculture, è un’opera del 1979 tuttora inedita nella forma in cui verrà esposta in Galleria, mentre Vista dal basso fu realizzata dieci anni dopo ed è stata ricostruita filologicamente dallo stesso artista, che sarà presente e disponibile al colloquio con il pubblico. 

Nell’ambito dell’evento, Lola Bonora, storica fondatrice del CentroVideoArte, illustrerà il programma completo dei video che verranno proiettati a partire da mercoledì 20 maggio. 

CALENDARIO DELLE PROIEZIONI PRESSO LA GALLERIA DE'FOSCHERARI

MERCOLEDI' 20 MAGGIO ORE 18.00  L'ARCHIVIO STORICO DELLA BIENNALE DI VENEZIA PRESENTA:

Vincenzo Agnetti  Documentario 2 ,1973

EnricoBafico Corrispondenza, 1975

Alighiero Boetti Ciò che sempre parla in silenzio e il corpo, 1974

Sandro Chia  Di come il fuoco rigenera la candela,1975

Giuseppe Chiari Spoleto Festival,1972

Gino De Dominicis Tentativo di volo, 1970

Andrea Granchi I militari,1975

Maurizio Nannucci  The missing poem is the poem, 1974

Lucio Pozzi Portrait of Maria Gloria, 1975

Proiezione a sorpresa di opere realizzate da:

Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari , Gino De Dominicis, Mario Merz, Gilberto Zorio

MERCOLEDÌ 27 MAGGIO ORE 18.00  LA GALLERIA DEL CAVALLINO PRESENTA :

Claudio Ambrosini Zoom, 1977 - De Photographia, 1976 -  VideoMusic, 1977 -  Luciano Celli - Television Screen, 1977

    Pier Paolo Fassetta e Luigi Viola - Frammenti di uno spazio interiore, 1980

      Michele Sambin - Il Tempo Consuma, 1978 - Anche le Mani Invecchiano, 1980 - Autointervista, 1980

        Guido Sartorelli - Tempo Spazio Superfice, 1974 - Analogie, 1978

          6. Mario Sillani - Narcissus, 1978 - Due Media,1979,

            7. Luigi Viola - Identity as Indentification, 1976 - Who is Luigi Viola, 1976

            MERCOLEDÌ 3 GIUGNO ORE 18.00 IL CENTRO VIDEOARTE DI FERRARA PRESENTA :

            Fabrizio Plessi  Acquabiografico, 1974

            Ricci Lucchi – Gianikian Viaggio di la rose, 1976

            Christina Kubisch Stille Nacht, 1975

            Giuliano Giuman Possibility of light, 1975 -  Possibility of shadow, 1975

            Giudo Sartorelli Proporzione alla memoria, 1975

            Fabrizio Plessi  Water Fan,1982

            Maurizio Bonora Sisma,1984

            Cristiana M. Ravenna Round in Square,1985

            Giorgio Cattani Metropolitan traces,1983

            Maurizio Camerani  La strada dell'abbandono disumano,1986

            Enzo Minarelli Chorus,1984

            MERCOLEDÌ 10 GIUGNO ORE 18.00  LA CASA TOTIANA PRESENTA:

            Gianni Toti Incatenata alla pellicola , 1983

             

            In fotografia

            CALZOLARI MORANDI PARMIGGIANI

            December 3, 2014 de'Foscherari
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            29 NOVEMBRE - 18 APRILE  2014

            Nel momento in cui l'Arte sembra raccogliersi su se stessa per riflettere sul proprio incerto futuro, gli artisti, rivolgono lo sguardo al passato in forma sostanzialmente diversa da come è sempre avvenuto. Non ci si ispira più o, comunque, non prevalentemente, ai classici, ma ai grandi dell'arte contemporanea, ai maestri del Novecento. Non solo, ma i maestri del Novecento non sono osservati perché ormai divenuti dei “classici”, cioè perché sono sempre attuali, ma, al contrario, perché sono inattuali. Non vogliamo scomodare Nietzsche, però insistiamo sul concetto di inattualità intesa come presa di distanza rispetto al proprio tempo, un tempo con il quale i maestri di cui parliamo non si sono mai riconciliati, un tempo che con la loro opera hanno sottoposto a critica, una critica che è sostanzialmente critica del moderno, di quella che Heidegger chiama l'Età della tecnica. Seguendo queste riflessioni la Galleria de'Foscherari ha progettato una mostra, nella quale ad un maestro inattuale della statura di Giorgio Morandi vengono accompagnati due artisti che potrebbero essere stati suoi allievi e che riteniamo altrettanto inattuali: Pier Paolo Calzolari, un bolognese ricco d'avventura e Claudio Parmiggiani, un emiliano di Luzzara rivolto all'esplorazione della memoria collettiva.

            Il primo, impostosi sul piano internazionale come un autorevole protagonista dell' Arte povera, ha scelto poi la ricerca rischiosa e solitaria di un'essenza artistica, della quale, alludiamo ancora a Heidegger, si è perso anche il linguaggio per esprimerla. Il secondo si è affermato per l'intensa ricerca, questa volta l'allusione è a Walter Benjamin, delle tracce che l'Arte ha lasciato dei suoi percorsi storici nella forma di reperti archeologici.

            Ma oltre a ciò, non è un trascurabile dettaglio biografico che questi due artisti vivano in luoghi appartati , ritirati dal mondo, cosi come Morandi soleva trascorrere la sua vera vita nel suo appartamento di Via Fondazza o nella solitudine di Grizzana. Non si tratta, infatti, di asocialità, di disprezzo della comunità che li circonda, dello snobistico rifiuto del clamore contemporaneo, bensì della ricerca di un punto di vista esterno, dal quale potere guardare dal di fuori il mondo, che facilmente ci sfugge nella sua complessità se vi restiamo immersi, e cosi poterlo giudicare, cioè sottoporlo a critica.

            Torniamo così alla critica del Moderno, critica che consente di associare a Morandi Calzolari e Parmiggiani per definirli tutti “artisti inattuali”. Già lo abbiamo accennato, ma dobbiamo chiarire meglio che criticare il Moderno non significa ritornare all'antico, avere nostalgia dei classici, volere restaurare l'età dell'oro dell'arte (come pensava il gruppo di “Valori Plastici” al quale Morandi stesso si era dapprima avvicinato), bensì cogliere le contraddizioni nelle quali il Moderno avviluppa l'Arte per tentare di mantenere aperto per essa un possibile futuro. Nessuna nostalgia di un passato perduto per sempre, quindi, ma una presa di distanza dal proprio tempo rivendicando, rispetto ad esso, la propria inattualità, cioè ritrovando e consolidando un atteggiamento che serpeggia come un filo rosso attraverso tutta la vicenda artistica dall'inizio del Novecento ad oggi .

            Ci fermiamo qui. Lasciamo agli specialisti, critici e storici dell'arte, ma anche agli appassionati e ai cultori delle arti belle, il compito, certamente non facile, di verificare o confutare questa nostra intuizione, espressa molto sommariamente, nella specificità filologica, nell' analisi stilistica, nella comparazione dei linguaggi delle opere esposte. Corriamo un grande rischio, ma lo facciamo consapevolmente: la natura morta del 1931, una delle più emblematiche del maestro scomparso cinquant'anni fa, rivelerà nella sua forma la fondatezza del confronto che abbiamo azzardato?

            E la nevicata del 1940, altra opera di Morandi che, dopo attenta riflessione, ci è parsa perfetta per questa esposizione, apparirà realmente significativa rispecchiandosi in quelle di Calzolari e Parmiggiani?

            Tags Calzolari, Parmiggiani, Galleria de' Foscherari

            CONCETTO POZZATI " LA SCUOLA DELLO SGUARDO 1963 - 1968"

            April 10, 2014 de'Foscherari
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            " LA SCUOLA DELLO SGUARDO 1963 - 1968"  - 13 APRILE - 30 GIUGNO 2014

            “L'ècole du regard”, la scuola dello sguardo, titolo suggerito dalla neoavanguardia letteraria e cinematografica francese. Pozzati è stato sempre un “investigatore del linguaggio” vicino alla Pop inglese, negli anni '63 -'68, anni dove il desiderio di riscoperta del mondo e della quotidianità sono l'esempio di cosificazione, di oggettivazione, di contaminazione del visivo e del visuale.

            Basta scorrere alcuni titoli indicativi delle opere per sottolineare una voluta ironia con punte di dissacrazione della stessa merce prodotta e riprodotta: “Pere domestiche a prezzo speciale”, “Con tutta tranquillità”, “Per una impossibile modificazione”, “Monumenti importanti e non”, “Oggi si riproduce e si consiglia”, “Inventario ,il mio rinnovato amore per Legér”, “La pera è la pera”, “Natura morta all'italiana”, “Pom – Pom”, “Les regardeurs” e altro.

            Opere del periodo storico di Pozzati prese in esame per questa mostra sono già state in molte occasioni esposte in rassegne antologiche tra le quali: Museo di Ixelles, Bruxelles, 1964; Pinacoteca di Parma, 1968; Palazzo Grassi, Venezia, 1974; Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1976; Musei di Berlino, Hannover, Bregenz, 1986; Palazzo Forti, Verona, 1987; Galleria d'Arte Moderna, Bologna, 1991;Csac, Università di Parma, 2002. Inoltre alle Biennali di Tokio e San Paolo del Brasile 1963; Biennale di Venezia,1964; Quadriennale di Roma, 1965; alla Galleria de'Foscherari, di Bologna, 1965 e 1967; Galleria Günar, Düsseldorf, 1966; alla Galleria Arco D'Alibert, Roma, 1966; allo Studio Marconi, Milano, 1967; Pop Italiana, Ventè Museum Tokio, 1993 e Galleria Niccoli, Parma, 2000.

            Il lavoro di Pozzati nel periodo '63 - '68, fatto di continue commistioni diviene sempre più individuale attraverso la pittura “assolutamente irrinunciabile” anche nella elaborazione dei materiali più disparati (acrilico, olio e smalto, plastica, neon, specchio). La sua pittura è energetica, sedimentata e acuta come ha sempre dimostrato nei diversi e molteplici cicli della sua lunga vicenda artistica: una storia pittorica tra le più significative di questo ultimo cinquantennio.

            Annota in quegli anni lo stesso Pozzati: “ commissionarsi l'opera: Progetto. Il quadro deve proporsi come una somma di strutture immediatamente leggibili e riferibili . Oggi si presenta e non si rappresenta”.

            E ancora sempre Pozzati nel 1966: “...mummificare il soggetto in modo da renderlo partecipe del linguaggio comune. Cosificare il privato e la storia...; il prestito e il saccheggio come lecita azione. Prestito di cose già giudicate e disponibili ad esserlo”.

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            NUNZIO

            December 17, 2013 de'Foscherari
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            14 Dicembre 2013 - 14 Marzo 2014 

            Dopo alcuni anni di assenza dalla scena espositiva bolognese, Nunzio vi ritorna presentando presso la Galleria de' Foscherari, un nutrito gruppo di opere recenti, che offrono all’attenzione del pubblico dell’arte e all’attesa dei tanti estimatori dello scultore una eloquente testimonianza della vitalità del suo lavoro e una rinnovata prova della sua originalità.

            Nato in Abruzzo nel 1954, trasferitosi giovanissimo a Roma, dove compie i suoi studi all'Accademia di Belle Arti, Nunzio si segnala rapidamente (la sua prima mostra personale è del 1981) come figura di spicco, nell’ambito della nuova generazione di artisti italiani che sale alla ribalta sul finire degli anni Settanta, per affermarsi decisamente nel decennio successivo. Nel clima di quella stagione creativa, dominata da molteplici orientamenti espressionistici e variegati citazionismi, Nunzio si presenta come un temperamento dissonante rispetto alle tendenze più diffuse, offrendo il profilo di un artista interamente concentrato sull’interrogazione delle proprietà linguistiche della scultura e sull’impegno di riformularne ed esaltarne le potenzialità espressive, preservandone inalterata l’identità.

            Tramite un esercizio fortemente sperimentale nell’impiego di mezzi, materie e procedure, come la pratica della combustione del legno, Nunzio giunge a conquistare nel volgere di breve tempo risultati di sorprendente novità ideativa, che impongono la qualità del suo lavoro all’attenzione della critica più attenta e gli procurano, attraverso le opere presentate nel 1986 alla XLII Biennale di Venezia, il riconoscimento del premio 2000 destinato al migliore giovane artista. Negli anni seguenti si moltiplicano per Nunzio i riconoscimenti e gli appuntamenti espositivi: nel 1987 la Galleria Civica di Modena gli dedica un’importante mostra personale; nel 1995 ottiene alla Biennale di Venezia un significativo riconoscimento con la menzione d’onore; sempre nel 1995 la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, nella sede di Villa delle Rose gli dedica un’ampia retrospettiva; dieci anni più tardi è il Macro di Roma ad ospitare una ricca antologia di suoi lavori; intanto nel 1998 l'accademia nazionale di San Luca gli attribuisce il premio Presidente della Repubblica. Molto ricco l’elenco delle presenze in mostre collettive, in Italia e all’estero e altrettanto nutrito il catalogo delle mostre personali in gallerie private.

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            Tags Nunzio, Galleria de' Foscherari

            GHIRRI - NITSCH - MAINOLFI- PARMIGGIANI - ZORIO

            October 29, 2013 de'Foscherari

            15 SETTEMBRE - 30 NOVEMBRE 2013

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            Aurelio Amendola

            March 23, 2013 de'Foscherari
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            HAPPENINGS - 23 Marzo - 10 Luglio 2013 

            Fin dai suoi esordi la fotografia ha intrattenuto stretti rapporti con l’esperienza degli artisti, pittori e scultori in primo luogo, impegnandosi non solo nel ritrarre e riprodurre il frutto del loro lavoro, ma altresì accompagnandolo e affiancandolo, animata dall’intenzione di coglierlo e documentarlo nell’atto del suo farsi. Con uno sguardo talora discreto e riservato, altra volta più invadente e pressante, la fotografia ci ha aperto innumerevoli porte di ateliers, di laboratori, di cantieri, di sale espositive,  di luoghi di convegno, rendendoci partecipi e testimoni di una storia altrimenti inattingibile nella varietà evanescente degli eventi che racconta, svelandoci molti segreti paesaggi, diversamente preclusi al nostro  sguardo. In virtù di questa sua curiosità, la fotografia ha dato corpo e sviluppo ad una specifica e rilevante tradizione, che ha generato, in oltre un secolo, uno smisurato catalogo di preziosi documenti visivi. Nell’impresa si sono cimentati molti fra i maggiori fotografi, ognuno addizionando al valore testimoniale degli scatti la proprietà individuale del linguaggio, della sensibilità, dello stile e, per il loro tramite, il contributo sostanziale di una lettura e di una interpretazione.

            Aurelio Amendola fa parte a pieno titolo della schiera, essendone  figura di ragguardevole e certificato rilievo. Magistrale indagatore della scultura del nostro Rinascimento - le fotografie dell’opera di Michelangelo, rappresentano probabilmente, di tale esperienza, l’insuperato traguardo - , egli ha riservato un’attenzione non episodica anche all'arte e agli artisti del proprio tempo, ottenendo in tale impegno risultati di personalissima e sostanziata qualità. La mostra, dedicata dalla Galleria de' Foscherari al fotografo, presenta una ricca selezione di questa sua produzione,  che offre uno sfaccettato ed avvincente campionario di  ritratti di artisti e di molteplici riprese dei modi esecutivi a cui essi hanno fatto ricorso. Così, scorrendo il nastro delle opere in mostra come pagine di un diario tenuto prima segreto, si rivelano allo sguardo del visitatore, in altrettante sorprendenti inquadrature: Alberto Burri, intento a realizzare, con l’ausilio della fiamma di un bruciatore, nello studio di Città di Castello,  una imponente Combustione; Emilio Vedova, impegnato in un emozionante corpo a corpo con la pittura; Antonio Recalcati, inquadrato nell’atto di imprimere sulla tela colorata l’Impronta del proprio corpo. E, ancora: Mario Ceroli mentre indossa due grandi ali di farfalla ritagliate nel legno, sulla riva del mare all’ora del tramonto, o Claudio Parmiggiani, che scheggia e frantuma grandi lastre di vetro, per dare potenza di visione alla costruzione del suo labirinto di cristallo. Attraverso queste immagini e le altre ispirate dall’opera di  Enzo Cucchi, Jannis Kounellis, Marcello Jori, Hermann Nitsch, questa mostra di Amendola, offre non soltanto una ulteriore, incontrovertibile prova della sapienza del fotografo e dell’intelligenza del suo sguardo, ma un’altrettanto stringente attestazione di quanto sia prossima e ineludibile la relazione che lega l’arte alla fotografia.

            Alberto Burri - Città di Castello 1976
            Alberto Burri - Città di Castello 1976
            Emilio Vedova - Venezia 1987
            Emilio Vedova - Venezia 1987
            Antonio Recalcati - Parigi 1971
            Antonio Recalcati - Parigi 1971
            Hermann Nitsch - Prizendorlf 2012
            Hermann Nitsch - Prizendorlf 2012
            Enzo Cucchi - Pietrasanta 1985
            Enzo Cucchi - Pietrasanta 1985
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            GEORGE GROSZ

            November 24, 2012 de'Foscherari
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            Gli anni di Berlino - 24 Novembre - 28 Febbraio 2013

            La Galleria de'Foscherari allestisce una mostra dedicata a George Grosz, conoscendo la tradizione di questa galleria viene spontaneo chiedersi quale sia l'attualità del grande artista tedesco, se cioè vi sia ancora una lettura delle sue opere che le animi con il ritmo della contemporaneità. Naturalmente l'esposizione riguarda il periodo berlinese, quel periodo compreso fra il 1912 e 1931, nel quale Grosz dà il meglio di sé, prima di essere costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo. L'America è la salvezza, ma là le sue matite non hanno più la punta affilata e i suoi pennelli si stemperano in una pittura ammorbidita. Anche del periodo berlinese però, ampio e ricco di avvenimenti culturali e drammi storici, credo sia necessario distinguere almeno una fase giovanile, peraltro affollata di opere, soprattutto disegni; un periodo in cui il nostro artista attraversa felicemente tutte le avanguardie, dal cubismo all'astrattismo; l'approdo, come tutto l'espressionismo, alla Nuova Oggettività dove si realizza pienamente la vicenda artistica,culturale e morale di un intellettuale che ha apertamente combattuto il conformismo borghese e il militarismo.A questo punto voglio notare che l'esito realista dell'Avanguardia Tedesca coincide sostanzialmente con la nascita del cinema espressionista, il quale nella sua prima fase assume la denominazione di Caligarismo (il primo film di questa tendenza, realizzato da R. Wiene nel 1919, è Il gabinetto del dottor Caligari). Richiamo questa circostanza non perché, com'è noto, Grosz nutriva interesse per lo spettacolo (in realtà soprattutto per il teatro politico), ma perché penso che il cinema di quel periodo possa aiutarci a meglio comprendere l'artista, le cui opere costituiscono una delle critiche più radicali alla società del periodo di Weimar. Ecco, allora, che rischiando qualche forzatura, inquadro del periodo berlinese la fase coincidente con la Nuova Oggettività, la fase in cui il realismo di Grosz appare più ricco e maturo, nonché di straordinaria attualità. Ma, prima di procedere, è necessario ricordare che il realismo, quale tendenza artistico-letteraria, dai fratelli Goncourt ad oggi, si presenta ciclicamente, magari come verismo o come naturalismo, nel nostro orizzonte culturale. Attualmente la nozione di realismo è oggetto di un intenso dibattito soprattutto per i filosofi, che arriva fino alle pagine dei quotidiani. Possiamo azzardare l'ipotesi che il prendere forma di tale tendenza coincida con i momenti critici subiti dalla società, con le crisi strutturali che affliggono , anche esse ciclicamente, i popoli . Per restare al Novecento e fare solo qualche esempio, la NuovaOggettività domina la cultura della Repubblica di Weimar, la cui crisi porterà al nazismo, il neoverismo è l'elemento più significativo della temperia culturale che accompagna il il New Deal roosveltiano, cioè la crisi americana seguita al 1929; il neorealismo assume in Italia grande rilievo negli anni quaranta e cinquanta, vale a dire fase bellica e postbellica.

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             Ora che attraversiamo un periodo critico di enorme intensità e si discute animatamente di un nuovo realismo, vengono spontanei i collegamenti con il passato e, in particolare, il confronto fra il nostro attuale momento storico e la situazione della Germania così efficacemente illustrata da Grosz. Proprio l'impressionante rappresentazione che il nostro artista ci ha dato di una classe dirigente viziosamente avida, profondamente ipocrita e ferocemente spietata, pone il problema di definire meglio il realismo di tale rappresentazione, non solo distinguendolo da quello di Otto Dix, come egregiamente hanno fatto alcuni autorevoli studiosi, ma anche azzardando un'interpretazione che mi ha suggerito l'espressionismo cinematografico. Il Caligarismo, infatti, esprime alcuni capolavori che criticano la società in termini metaforici e le metafore sono costruite su figure mostruose, quali il Dott Caligari, il Dott Mabuse (Lang), Nosferatu il Vampiro (Murnau). Sembra che il cinema, prima di approdare all'espressionismo critico, cioè al realismo degli anni 1926 - 1931, riprenda l'espressionismo delle origini (1905 – 1911), cioè il visionarismo allucinato che rivela la forma mostruosa della realtà con un linguaggio inusitato e abnorme. Osservando le opere di Grosz, che non a caso era amico e collaboratore di Brecht, sembra di scorgere controluce, al di la della forma realistica e grazie a piccoli ma significativi scarti da questa forma, i mostri che il cinema espressionista ha fissato nel nostro immaginario come capostipiti di tutti gli orrori del moderno. Detto altrimenti, è come se Grosz, rovesciando il procedimento critico dei film Caligaristi,anziché rappresentare i mostri che alludono alla realtà, rappresentasse una realtà cosi sfaccettata e con tale profondità di campo da far filtrare l'essenza più intima della realtà stessa, la verità mostruosa del essere sociale. Ma qui arriviamo ad un terreno su cui non oso avventurarmi, al campo minato della distinzione fra realtà e verità, al punto dolente di ogni teorizzazione sul realismo. Forse un attenta rivisitazione di Grosz potrà esserci di aiuto anche in questo campo

            Mario Ceroli

            April 21, 2012 de'Foscherari
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            Mario Ceroli 1962-68 - 21 Aprile - 30 Ottobre 2012

             

            Nel presentare un'ampia e meditata selezione delle opere prodotte da Mario Ceroli negli anni sessanta, abbiamo cercato di perseguire due obbiettivi strettamente connessi. Da un lato contribuire all'interessante revival della neoavanguardia artistica, in particolare della sua fase più matura, raggiunta negli anni sessanta, che si sta sviluppando con una certa intensità; dall'altro rendere omaggio a un artista, che di quella stagione è stato un indiscusso protagonista ed ha avuto proprio negli anni sessanta una della fasi più felici della sua prorompente creatività. Siamo consapevoli che bisognerebbe andare oltre la semplice riproposta di un autore, per quanto esemplare, e cercare di reinterpretarne l'opera, dopo cinquant'anni, non solo alla scontata ricerca di una generica “attualità”, bensì anche di indicazioni critiche atte a farci comprendere se questa rinnovata attenzione per le neoavanguardie artistiche preannuncia una vera e propria “rivisitazione”, nel senso di una ripresa di tendenze realmente innovative nell'universo artistico, oppure sia dovuta a motivi contingenti. Confessiamo di non aver avuto l'animo di affrontare un compito tanto ambizioso (così, comunque, è parso a noi) e abbiamo ripiegato sulla soluzione che ci è parsa la più filologicamente corretta.

            Dopo aver consultato la sterminata letteratura critica esistente sul nostro artista, spesso di alto livello, e deciso prudentemente di evitare il viaggio ermeneutico nel mare aperto degli eventi futuri, abbiamo optato per accompagnare la mostra con due scritti d'epoca, opportunamente sfrondati, dovuti a Pietro Bonfiglioli. Rischiamo consapevolmente l'accusa di excusazio non petita... anticipando che non si tratta solo di una soluzione “autarchica”, anche se notoriamente Ceroli è un autore della nostra galleria, dove ha tenuto numerose e felici esposizioni, e Bonfiglioli ne è stato l'autorevolissimo consulente culturale, creatore di un Notiziario, pubblicato in appendice ai cataloghi, che proprio negli anni sessanta giunse a un prestigio nazionale indiscusso. Proprio dal notiziario, datato gennaio 1967, è tratto Ceroli e la “Scuola romana”, scritto da Bonfiglioli in occasione della terza mostra allestita dal nostro artista a Roma, presso La Tartaruga, ma dando ampiamente conto anche delle precedenti. La gaia scienza di Ceroli, invece, è la presentazione, a lungo meditata, di un grande allestimento realizzato direttamente nella Galleria de 'Foscherari nel 1968 dal titolo L' Aria di Daria. I due testi, questa è la nostra convinzione, danno un' interpretazione critica dell'attività di Ceroli nel decennio considerato, fondata su un metodo analitico rigoroso, i cui risultati, per quanto opinabili com'e ovvio, restano fra i più interessanti raggiunti dalla critica che si cimentava in un confronto serrato, né accademico né militante, con i nuovi orizzonti aperti dalla rivisitazione delle avanguardie storiche. Non una soluzione autarchica, quindi, ma la riproposta, assieme a un artista fra i più rappresentativi della temperie culturale neoavanguardistica, di una metodologia critica al fine di verificare (non a caso prendendo spunto da Ceroli) se ancora offre elementi validi per un possibile dibattito sull'arte contemporanea.

            In altri termini, Ceroli va considerato ormai alla stregua dei classici, oppure nel contesto attuale la sua opera non si è ancora riconciliata con le Muse e mantiene un potenziale innovatore tale da poter innescare inediti processi sperimentali? Se la seconda ipotesi è praticabile, lo sguardo attento alle opere e la lettura spregiudicata dei testi potrebbero darcene conferma.

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            Ceroli e " La scuola Romana"

             

            Dire di Ceroli che è uno dei giovani più vivi nel panorama artistico italiano non è che rendergli giustizia. Ma l’occasione della sua terza personale alla galleria romana La Tartaruga è proprio di quelle che inducono il critico a forzare la misurata prudenza dei suoi giudizi…

            A questo proposito è difficile resistere alla tentazione di tradurre il giudizio in termini linguistici. Infatti il discorso di Ceroli — poiché di discorso si tratta anche nel senso più specifico della fluidità sintattica — è particolarmente attento alle sostanze (nel doppio senso della scuola glossematica: come sostanza dell’espressione o materialità, fisicità del segno; come sostanza del contenuto o valore sociale, comunicativo e in definitiva ideologico del segno). Anzi, proprio questa consapevolezza — a buon livello critico — dell’unità della lingua come sostanza e forma allontana in modo netto il giovane scultore abruzzese e pochi altri artisti della “scuola romana” (il più maturo e complesso Schifano in primo luogo) dalla pericolosa fiducia in un discorso di mere forme che è propria di quelle sperimentazioni “linguistiche”, alle quali comunque egli partecipa per diritto di formazione (come non pensare all’influenza esercitata su di lui dai “corpi in moto e in equilibrio” dello Schifano “futurista”? ), sia pure con tutti i riferimenti d’obbligo al di là dello Atlantico (Nevelson) e al di là della Manica (Tilson). In un primo momento l’operazione di Ceroli consiste semplicemente in una riduzione linguistica: dell’immagine a segno (Calvesi parla di ideogramma) e del segno a sostanza dell’espressione o materialità segnica. Infatti, la prima personale alla Tartaruga (1964) mostra un lavoro particolarmente rivolto a provare la consistenza fisica del segno, la sua opaca sordità legnosa (grandi lettere dell’alfabeto, numeri enormi di orologi da stazione ferroviaria, elementari opposizioni fonetiche, l’antitesi primaria di un SI e un NO: il tutto in grezze tavole d’abete inchiodate con dissimulata perizia di artigiano). Un intero codice grafico della civiltà industriale — scritte pubblicitarie, “luminose”, cifre, segnali marca - tempo ecc. — degrada improvvisamente al prodotto di una bottega da falegname, si sottrae alla propria specifica funzionalità indicativa e viene costretto ad evidenziare la propria ingigantita, piatta e inusuale corporeità di legno. Questa duplice regressione, del segno alla sostanza fisica e dell’industria all’artigianato, non si svolge secondo procedimenti paralleli ma dialetticamente incrociati in un rapporto di contraddizione reciproca, a chiasmo. Per di più, con una serietà cattiva e scanzonata, senza ironia, senza la malizia ludica e lucida del puzzle tilsoniano: un modo, insomma, di guardare il mondo dei segni dal basso, rovesciandolo, materializzandolo, vale a dire scoprendone, con sorpresa anche divertita, la menzogna, l'inusualità.

            A questo livello si approfondisce, con un ricorso alla sostanza del contenuto, la critica della lingua, della sua unità falsa o usualità impraticabile. Sul piano di questo suo materialismo pratico Ceroli incontra l’uomo. Dapprima un modello antropologico: Adamo come il David di Michelangelo ( “Adamo ed Eva”), contraddistinto ancora da alcuni segnali vistosi: il sesso a fiamma, la mela in alto, la tazza del cesso accanto nel risvolto della “cassetta”; insomma, l’uomo come ente-di-bisogni: istinto, desiderio, fisiologia; o, se si vuole, come ente generico, perfezione vuota, ritaglio in “cassetta” di una armonia leonardesca (“L’uomo di Leonardo”), non ancora storia. Ma ecco, l’uomo è abbandonato dalla sua “divinità”(“nell'Ultima cena”, dove dodici sagome siedono in fila uguagliate dalla serialità del profilo, il posto del Cristo è vuoto): sale e scende le scale, si agita in una pista da ballo, si colloca nello spaccato di una casa a compartimenti stipati come un armadio della Nevelson, sporge di taglio dalle pareti o pende come un assurdo sportello umano dal soffitto della “Cassa Sistina” (una sintesi di sublimazioni storiche degradate a livello della cassa da imballaggio o del vagone-merci), e infine si allinea nell’anonimia “cinese” di innumerevoli profili senza faccia...

            Ceroli sa bene che la riduzione dell’umano alla sintassi del visivo e all’astrazione delle categorie percettive, ripugna al suo materialismo pratico, che preferisce agire sulle sostanze piuttosto che contemplarle nella loro formalità paradigmatica. Non crede che l’uomo possa trovare la propria unità con se stesso nel paradiso, sia pure laico e avverso alle estetiche speculative, dei rapporti formali; anzi, quegli stessi rapporti sottopone a processo critico rivelandone la sostanza ideologica. Insomma, se l’uomo, secondo una corretta accezione materialistica, si autoproduce come comunicazione, a sua riduzione a mera linguisticità è proprio l’indice di una comunicazione bloccata, impraticabile, che costringe l’uomo a ripiegarsi su se stesso, nella falsa coscienza di una unità posseduta solo in idea. Ecco perché Ceroli non nasconde, anzi tende a sottolineare, la natura contraddittoria e doppia del suo uomo di legno, la cui corporeità è nello stesso tempo privazione di corpo, fantasma-goria, idea appunto. Da una parte il corpo scade a materiale, a cosa, ruvida tavola di legno da imballaggio; dall’altra parte il materiale si assottiglia in una bidimensionalità perfettamente sagomata, si disegna in silhouette, si svuota, si falsifica in “spirito”;in altri termini, si fa lingua comune, cioè si ideologizza come forma delle idee coatte, ripetizione...

            P. Bonfiglioli

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