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Galleria de' Foscherari

via Castiglione, 2b
Bologna
+39 051 221308
Galleria de' Foscherari
 

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GEORGE GROSZ

November 24, 2012 de'Foscherari
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Gli anni di Berlino - 24 Novembre - 28 Febbraio 2013

La Galleria de'Foscherari allestisce una mostra dedicata a George Grosz, conoscendo la tradizione di questa galleria viene spontaneo chiedersi quale sia l'attualità del grande artista tedesco, se cioè vi sia ancora una lettura delle sue opere che le animi con il ritmo della contemporaneità. Naturalmente l'esposizione riguarda il periodo berlinese, quel periodo compreso fra il 1912 e 1931, nel quale Grosz dà il meglio di sé, prima di essere costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo. L'America è la salvezza, ma là le sue matite non hanno più la punta affilata e i suoi pennelli si stemperano in una pittura ammorbidita. Anche del periodo berlinese però, ampio e ricco di avvenimenti culturali e drammi storici, credo sia necessario distinguere almeno una fase giovanile, peraltro affollata di opere, soprattutto disegni; un periodo in cui il nostro artista attraversa felicemente tutte le avanguardie, dal cubismo all'astrattismo; l'approdo, come tutto l'espressionismo, alla Nuova Oggettività dove si realizza pienamente la vicenda artistica,culturale e morale di un intellettuale che ha apertamente combattuto il conformismo borghese e il militarismo.A questo punto voglio notare che l'esito realista dell'Avanguardia Tedesca coincide sostanzialmente con la nascita del cinema espressionista, il quale nella sua prima fase assume la denominazione di Caligarismo (il primo film di questa tendenza, realizzato da R. Wiene nel 1919, è Il gabinetto del dottor Caligari). Richiamo questa circostanza non perché, com'è noto, Grosz nutriva interesse per lo spettacolo (in realtà soprattutto per il teatro politico), ma perché penso che il cinema di quel periodo possa aiutarci a meglio comprendere l'artista, le cui opere costituiscono una delle critiche più radicali alla società del periodo di Weimar. Ecco, allora, che rischiando qualche forzatura, inquadro del periodo berlinese la fase coincidente con la Nuova Oggettività, la fase in cui il realismo di Grosz appare più ricco e maturo, nonché di straordinaria attualità. Ma, prima di procedere, è necessario ricordare che il realismo, quale tendenza artistico-letteraria, dai fratelli Goncourt ad oggi, si presenta ciclicamente, magari come verismo o come naturalismo, nel nostro orizzonte culturale. Attualmente la nozione di realismo è oggetto di un intenso dibattito soprattutto per i filosofi, che arriva fino alle pagine dei quotidiani. Possiamo azzardare l'ipotesi che il prendere forma di tale tendenza coincida con i momenti critici subiti dalla società, con le crisi strutturali che affliggono , anche esse ciclicamente, i popoli . Per restare al Novecento e fare solo qualche esempio, la NuovaOggettività domina la cultura della Repubblica di Weimar, la cui crisi porterà al nazismo, il neoverismo è l'elemento più significativo della temperia culturale che accompagna il il New Deal roosveltiano, cioè la crisi americana seguita al 1929; il neorealismo assume in Italia grande rilievo negli anni quaranta e cinquanta, vale a dire fase bellica e postbellica.

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 Ora che attraversiamo un periodo critico di enorme intensità e si discute animatamente di un nuovo realismo, vengono spontanei i collegamenti con il passato e, in particolare, il confronto fra il nostro attuale momento storico e la situazione della Germania così efficacemente illustrata da Grosz. Proprio l'impressionante rappresentazione che il nostro artista ci ha dato di una classe dirigente viziosamente avida, profondamente ipocrita e ferocemente spietata, pone il problema di definire meglio il realismo di tale rappresentazione, non solo distinguendolo da quello di Otto Dix, come egregiamente hanno fatto alcuni autorevoli studiosi, ma anche azzardando un'interpretazione che mi ha suggerito l'espressionismo cinematografico. Il Caligarismo, infatti, esprime alcuni capolavori che criticano la società in termini metaforici e le metafore sono costruite su figure mostruose, quali il Dott Caligari, il Dott Mabuse (Lang), Nosferatu il Vampiro (Murnau). Sembra che il cinema, prima di approdare all'espressionismo critico, cioè al realismo degli anni 1926 - 1931, riprenda l'espressionismo delle origini (1905 – 1911), cioè il visionarismo allucinato che rivela la forma mostruosa della realtà con un linguaggio inusitato e abnorme. Osservando le opere di Grosz, che non a caso era amico e collaboratore di Brecht, sembra di scorgere controluce, al di la della forma realistica e grazie a piccoli ma significativi scarti da questa forma, i mostri che il cinema espressionista ha fissato nel nostro immaginario come capostipiti di tutti gli orrori del moderno. Detto altrimenti, è come se Grosz, rovesciando il procedimento critico dei film Caligaristi,anziché rappresentare i mostri che alludono alla realtà, rappresentasse una realtà cosi sfaccettata e con tale profondità di campo da far filtrare l'essenza più intima della realtà stessa, la verità mostruosa del essere sociale. Ma qui arriviamo ad un terreno su cui non oso avventurarmi, al campo minato della distinzione fra realtà e verità, al punto dolente di ogni teorizzazione sul realismo. Forse un attenta rivisitazione di Grosz potrà esserci di aiuto anche in questo campo

Mario Ceroli

April 21, 2012 de'Foscherari
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Mario Ceroli 1962-68 - 21 Aprile - 30 Ottobre 2012

 

Nel presentare un'ampia e meditata selezione delle opere prodotte da Mario Ceroli negli anni sessanta, abbiamo cercato di perseguire due obbiettivi strettamente connessi. Da un lato contribuire all'interessante revival della neoavanguardia artistica, in particolare della sua fase più matura, raggiunta negli anni sessanta, che si sta sviluppando con una certa intensità; dall'altro rendere omaggio a un artista, che di quella stagione è stato un indiscusso protagonista ed ha avuto proprio negli anni sessanta una della fasi più felici della sua prorompente creatività. Siamo consapevoli che bisognerebbe andare oltre la semplice riproposta di un autore, per quanto esemplare, e cercare di reinterpretarne l'opera, dopo cinquant'anni, non solo alla scontata ricerca di una generica “attualità”, bensì anche di indicazioni critiche atte a farci comprendere se questa rinnovata attenzione per le neoavanguardie artistiche preannuncia una vera e propria “rivisitazione”, nel senso di una ripresa di tendenze realmente innovative nell'universo artistico, oppure sia dovuta a motivi contingenti. Confessiamo di non aver avuto l'animo di affrontare un compito tanto ambizioso (così, comunque, è parso a noi) e abbiamo ripiegato sulla soluzione che ci è parsa la più filologicamente corretta.

Dopo aver consultato la sterminata letteratura critica esistente sul nostro artista, spesso di alto livello, e deciso prudentemente di evitare il viaggio ermeneutico nel mare aperto degli eventi futuri, abbiamo optato per accompagnare la mostra con due scritti d'epoca, opportunamente sfrondati, dovuti a Pietro Bonfiglioli. Rischiamo consapevolmente l'accusa di excusazio non petita... anticipando che non si tratta solo di una soluzione “autarchica”, anche se notoriamente Ceroli è un autore della nostra galleria, dove ha tenuto numerose e felici esposizioni, e Bonfiglioli ne è stato l'autorevolissimo consulente culturale, creatore di un Notiziario, pubblicato in appendice ai cataloghi, che proprio negli anni sessanta giunse a un prestigio nazionale indiscusso. Proprio dal notiziario, datato gennaio 1967, è tratto Ceroli e la “Scuola romana”, scritto da Bonfiglioli in occasione della terza mostra allestita dal nostro artista a Roma, presso La Tartaruga, ma dando ampiamente conto anche delle precedenti. La gaia scienza di Ceroli, invece, è la presentazione, a lungo meditata, di un grande allestimento realizzato direttamente nella Galleria de 'Foscherari nel 1968 dal titolo L' Aria di Daria. I due testi, questa è la nostra convinzione, danno un' interpretazione critica dell'attività di Ceroli nel decennio considerato, fondata su un metodo analitico rigoroso, i cui risultati, per quanto opinabili com'e ovvio, restano fra i più interessanti raggiunti dalla critica che si cimentava in un confronto serrato, né accademico né militante, con i nuovi orizzonti aperti dalla rivisitazione delle avanguardie storiche. Non una soluzione autarchica, quindi, ma la riproposta, assieme a un artista fra i più rappresentativi della temperie culturale neoavanguardistica, di una metodologia critica al fine di verificare (non a caso prendendo spunto da Ceroli) se ancora offre elementi validi per un possibile dibattito sull'arte contemporanea.

In altri termini, Ceroli va considerato ormai alla stregua dei classici, oppure nel contesto attuale la sua opera non si è ancora riconciliata con le Muse e mantiene un potenziale innovatore tale da poter innescare inediti processi sperimentali? Se la seconda ipotesi è praticabile, lo sguardo attento alle opere e la lettura spregiudicata dei testi potrebbero darcene conferma.

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Ceroli e " La scuola Romana"

 

Dire di Ceroli che è uno dei giovani più vivi nel panorama artistico italiano non è che rendergli giustizia. Ma l’occasione della sua terza personale alla galleria romana La Tartaruga è proprio di quelle che inducono il critico a forzare la misurata prudenza dei suoi giudizi…

A questo proposito è difficile resistere alla tentazione di tradurre il giudizio in termini linguistici. Infatti il discorso di Ceroli — poiché di discorso si tratta anche nel senso più specifico della fluidità sintattica — è particolarmente attento alle sostanze (nel doppio senso della scuola glossematica: come sostanza dell’espressione o materialità, fisicità del segno; come sostanza del contenuto o valore sociale, comunicativo e in definitiva ideologico del segno). Anzi, proprio questa consapevolezza — a buon livello critico — dell’unità della lingua come sostanza e forma allontana in modo netto il giovane scultore abruzzese e pochi altri artisti della “scuola romana” (il più maturo e complesso Schifano in primo luogo) dalla pericolosa fiducia in un discorso di mere forme che è propria di quelle sperimentazioni “linguistiche”, alle quali comunque egli partecipa per diritto di formazione (come non pensare all’influenza esercitata su di lui dai “corpi in moto e in equilibrio” dello Schifano “futurista”? ), sia pure con tutti i riferimenti d’obbligo al di là dello Atlantico (Nevelson) e al di là della Manica (Tilson). In un primo momento l’operazione di Ceroli consiste semplicemente in una riduzione linguistica: dell’immagine a segno (Calvesi parla di ideogramma) e del segno a sostanza dell’espressione o materialità segnica. Infatti, la prima personale alla Tartaruga (1964) mostra un lavoro particolarmente rivolto a provare la consistenza fisica del segno, la sua opaca sordità legnosa (grandi lettere dell’alfabeto, numeri enormi di orologi da stazione ferroviaria, elementari opposizioni fonetiche, l’antitesi primaria di un SI e un NO: il tutto in grezze tavole d’abete inchiodate con dissimulata perizia di artigiano). Un intero codice grafico della civiltà industriale — scritte pubblicitarie, “luminose”, cifre, segnali marca - tempo ecc. — degrada improvvisamente al prodotto di una bottega da falegname, si sottrae alla propria specifica funzionalità indicativa e viene costretto ad evidenziare la propria ingigantita, piatta e inusuale corporeità di legno. Questa duplice regressione, del segno alla sostanza fisica e dell’industria all’artigianato, non si svolge secondo procedimenti paralleli ma dialetticamente incrociati in un rapporto di contraddizione reciproca, a chiasmo. Per di più, con una serietà cattiva e scanzonata, senza ironia, senza la malizia ludica e lucida del puzzle tilsoniano: un modo, insomma, di guardare il mondo dei segni dal basso, rovesciandolo, materializzandolo, vale a dire scoprendone, con sorpresa anche divertita, la menzogna, l'inusualità.

A questo livello si approfondisce, con un ricorso alla sostanza del contenuto, la critica della lingua, della sua unità falsa o usualità impraticabile. Sul piano di questo suo materialismo pratico Ceroli incontra l’uomo. Dapprima un modello antropologico: Adamo come il David di Michelangelo ( “Adamo ed Eva”), contraddistinto ancora da alcuni segnali vistosi: il sesso a fiamma, la mela in alto, la tazza del cesso accanto nel risvolto della “cassetta”; insomma, l’uomo come ente-di-bisogni: istinto, desiderio, fisiologia; o, se si vuole, come ente generico, perfezione vuota, ritaglio in “cassetta” di una armonia leonardesca (“L’uomo di Leonardo”), non ancora storia. Ma ecco, l’uomo è abbandonato dalla sua “divinità”(“nell'Ultima cena”, dove dodici sagome siedono in fila uguagliate dalla serialità del profilo, il posto del Cristo è vuoto): sale e scende le scale, si agita in una pista da ballo, si colloca nello spaccato di una casa a compartimenti stipati come un armadio della Nevelson, sporge di taglio dalle pareti o pende come un assurdo sportello umano dal soffitto della “Cassa Sistina” (una sintesi di sublimazioni storiche degradate a livello della cassa da imballaggio o del vagone-merci), e infine si allinea nell’anonimia “cinese” di innumerevoli profili senza faccia...

Ceroli sa bene che la riduzione dell’umano alla sintassi del visivo e all’astrazione delle categorie percettive, ripugna al suo materialismo pratico, che preferisce agire sulle sostanze piuttosto che contemplarle nella loro formalità paradigmatica. Non crede che l’uomo possa trovare la propria unità con se stesso nel paradiso, sia pure laico e avverso alle estetiche speculative, dei rapporti formali; anzi, quegli stessi rapporti sottopone a processo critico rivelandone la sostanza ideologica. Insomma, se l’uomo, secondo una corretta accezione materialistica, si autoproduce come comunicazione, a sua riduzione a mera linguisticità è proprio l’indice di una comunicazione bloccata, impraticabile, che costringe l’uomo a ripiegarsi su se stesso, nella falsa coscienza di una unità posseduta solo in idea. Ecco perché Ceroli non nasconde, anzi tende a sottolineare, la natura contraddittoria e doppia del suo uomo di legno, la cui corporeità è nello stesso tempo privazione di corpo, fantasma-goria, idea appunto. Da una parte il corpo scade a materiale, a cosa, ruvida tavola di legno da imballaggio; dall’altra parte il materiale si assottiglia in una bidimensionalità perfettamente sagomata, si disegna in silhouette, si svuota, si falsifica in “spirito”;in altri termini, si fa lingua comune, cioè si ideologizza come forma delle idee coatte, ripetizione...

P. Bonfiglioli

Calzolari - Piacentino - Zorio

September 24, 2011 de'Foscherari
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Settembre - Dicembre 2011

L’Arte Povera, dunque. Una delle ultime tendenze della Neoavanguardia riprende la sua spinta espansiva partendo da Bologna, dove nel febbraio del 1968 aveva avuto il suo formale atto di nascita, per irradiarsi in vari centri d’Italia in occasione dei 150 anni compiuti dalla Nazione. L’idea di Germano Celant, che per primo aveva colto la sostanza di nuova vague della tendenza incubata a Torino, accolta dal MAMbo e da altri lungimiranti luoghi deputati dell’arte contemporanea nel nostro Paese, offre l’opportunità di riflettere, a più di quarant’anni di distanza, su un fenomeno entrato clamorosamente nella Storia dell’arte italiana e non solo italiana.

La Galleria de’Foscherari, dove, grazie all’intuito tempestivo di Franco Bartoli, che ne era il direttore e all’acume critico di Pietro Bonfiglioli, consulente culturale della Galleria stessa, l’Arte Povera ebbe il suo esordio ufficiale, non poteva esimersi dal contribuire all’evento nella forma più idonea e rispondente allo spirito dalla manifestazione nel suo complesso.

Il 24 settembre, giorno successivo della vernice al MAMbo, la Galleria de’Foscherari ha inaugurato una mostra con opere, accuratamente scelte, di Pier Paolo Calzolari Gianni Piacentino e Gilberto Zorio. Alla mostra, un non trascurabile arricchimento dell'esposizione offerta dal nostro Museo d’Arte Moderna, la Galleria de’Foscherari aggiungerà due preziosi reperti tratti dai suoi archivi e ristampati in forma anastatica: si tratta dell’ormai introvabile catalogo della mostra Arte Povera a cura di Germano Celant del febbraio 1968 e del Quaderno N.1 della galleria, nel quale Bonfiglioli raccolse, sotto il titolo emblematico La povertà dell’arte, gli interventi che animarono il dibattito, ampio, appassionato e teoricamente puntuale, originato dall’impatto dell’evento sulla cultura figurativa italiana.

Nel 1968, un anno storicamente cruciale, Bologna era all’avanguardia nel campo delle arti visive (nell’ottobre dello stesso anno il primo nucleo della Cineteca darà vita al Cinema Roma d’Essai) e ciò aiuta a comprendere perché l’appello di Bonfiglioli ad intervenire a proposito dell’Arte Povera sia stato accolto dai più prestigiosi critici e storici dell’arte italiani, nonché da artisti quali Renato Guttuso: da Apollonio ad Arcangeli, da Calvesi a Del Guercio, da Barilli a Bonito Oliva, da Boarini a De Martis da Fagiolo a Pignotti. Tutti desiderosi di dare il proprio contributo all’interpretazione di un fenomeno che si intuiva ricco di futuro.

Bonfiglioli, oltre la pregnante presentazione del dibattito, diede al Quaderno un titolo che suggerisce una precisa lettura critica del tutto. Il titolo, infatti, è una parafrasi del famoso testo di Marx La miseria della filosofia, con il quale il filosofo di Treviri rispondeva polemicamente al saggio di Proudhon La filosofia della miseria. L’Arte Povera, insinua Bonfiglioli, allude alla povertà dell’arte e suggerisce di mettere la “critica dell’arte” al posto della critica d’arte: un’esperienza che, sulla scorta del Quaderno nuovamente disponibile, potrebbe essere interessante, soprattutto per le nuove generazioni.

 

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Tags Calzolari, Piacentino, Zorio, Galleria de' Foscherari

Marcello Jori

October 23, 2010 de'Foscherari
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La conversione - Ottobre - Dicembre 2010

L’opera fotografica di Marcello Jori – quella storica e quella di oggi – è il tema della mostra, che si sviluppa attraverso un’ampia selezione di lavori. Lo spazio stesso della Galleria diventa così teatro della “novità” di Jori, occasione per presentare al pubblico una fotografia capace di elaborare nel profondo alcune tematiche nodali del pensiero contemporaneo, giusto a partire dall’intimità dei suoi stessi soggetti. Presentando lavori storici a fianco degli ultimi lavori realizzati dall’artista, l’idea curatoriale di questa importante personale è quella di far emerge nel suo complesso la poetica di Marcello Jori, autore per il quale la fotografia ha sempre felicemente dialogato con la pittura, la scrittura, la musica, il fumetto e il design, addentrandosi nei territori dell’arte totale. L’opera fotografica di Marcello Jori solo così può dunque esprimere il suo vero valore, e lo fa attraverso due momenti distinti. Il primo, nel cuore degli anni ’70, nel clima tardo concettuale della ‘ripetizione differente’, dove Jori sperimenta l’intimo legame tra spirito e natura, tra arte e vita (“Prima della neve” dopo la neve, 1976 oppure Scoperta e conquista dell’”Insula Dulcamara”, 1976). Con l’uso della fotografia, Jori fa corrispondere la propria dimensione esistenziale con quella degli artisti da lui più amati – primo fra tutti Paul Klee – innescando una intensa e vitale narrazione. (Contaminazione: Jori-Klee, 1974 oppure Io ero lui, 1974). Il secondo momento, attualissimo, è quello in cui Jori torna alla fotografia dopo essere passato nel vortice della pittura, perseguendo un’idea di profonda rigenerazione. La propria identità di artista è ora al centro della scena (Monocromo, 2009). Ma anche l’anima di un amico – Lucio Fontana – adesso è lì, tangibile, attraverso la presenza fisica della sua stessa opera (La guarigione, 2010 oppure Direzione Fontana, 2010). E la fotografia, mai come ora, diventa tramite per dare corpo al pensiero, per realizzare l’idea romantica dell’unità tra spirito e natura. Per ritrovare l’assoluto (Orizzonte Fontana, 2008 oppure La Conversione, 2010). «Non sono mai stato un fotografo quando ho utilizzato la fotografia. Negli anni ’70 si fotografavano soprattutto pensieri e lo scatto serviva a condurre altrove, rispetto alle immagini rappresentate. Si trattava di testimonianze di azioni, dichiarazioni di intenti. Si faceva del non professionismo e dell’ignoranza del mezzo, un grande valore. Si indagava la musica senza essere musicisti, si trattava la scrittura come pittura parlante, si usava la critica d’arte per fare arte. Quando sono arrivato io, si preferiva guardare, piuttosto che il mondo, la sua rappresentazione. L’intelligenza e il progetto prendevano il sopravvento sull’involucro». Marcello Jori, 2007.

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Piero Manai

April 10, 2010 de'Foscherari
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L'insostenibile visione dell'essere Aprile - Settembre 2010

A distanza di un quarto di secolo la Galleria De' Foscherari ripropone, facendone il momento centrale di una esposizione costituita da tele di grande dimensione e acetati, le polaroid di Piero Manai. Tale centralità, sottolineata anche dalla quantità e varietà di foto attentamente selezionate e criticamente allineate (parte preponderante delle quali inedite), ha un suo fondamento teorico rispetto all'opera complessiva dell'artista. La fotografia, infatti, come molti hanno osservato, può considerarsi alla base dell'operare artistico di Manai, un elemento imprescindibile per comprendere il significato profondo delle sue grandi teste, dei suoi corpi mutilati o feriti, delle sue maschere, ma anche dei macigni, dei “pesi” e dei paesaggi. Ripercorrendo in qualche misura l'evoluzione delle avanguardie storiche, Manai parrebbe aver preso le mosse dall'Africa, cioè dall' “altro” rispetto alla cultura occidentale bianca, ed essere stato folgorato, come a Parigi gli avanguardisti del primo Novecento dalla grande mostra dell'arte africana, dalle fotografie della Leni Riefenstahl dedicate a varie tribù del Continente nero. Lo straordinario reportage fotografico della famosissima documentarista tedesca, che mostra i corpi seminudi degli indigeni, a volte bellissimi, ma con l'aria sofferente, costituisce senza dubbio un ineludibile punto di riferimento per il nostro artista. In particolare quei corpi, pur vigorosi, ma con l'organo sessuale avvolto in un penier apparentemente costituito da bende, quasi uomini feriti nella loro virilità.

La fotografia antropologica, dunque, al posto delle sculture africane, innesca la ricerca di Manai attraverso la pittura. Sottolineo attraverso la pittura perché per Manai la pittura non ha come fine la bellezza, non a caso alcuni hanno parlato di anticlassicismo o aclassicismo per il Nostro, ma la ricerca di ciò che sta al di là della pittura intesa come rappresentazione o, meglio, al di là di ogni possibile rappresentazione, cioè al di là dell'universo visivo contemporaneo (cinema, teatro, televisione ecc). Ma andiamo con ordine, l'analogia con le avanguardie storiche è soltanto lo scatto iniziale di un percorso, al quale possiamo associare anche i reperti di una classicità remota, che vede Manai attraversare l'arte del suo tempo, in particolare le neoavanguardie, il concettualismo, le grammatiche del corpo, la pop (basti pensare, per il tutto, i bellissimi barattoli e le straordinarie matite) senza identificarsi con nessuna di tali tendenze.

Lo abbiamo già accennato, la pittura per Manai, è uno strumento di ricerca (si potrebbe dire, come è stato detto, sperimentalismo), ma non una ricerca linguistica, né tanto meno una ricerca scientifica, bensì una ricerca ontologica. Se l'arte costituisce una rappresentazione della realtà, una rappresentazione del mondo, Manai vuole andare oltre la rappresentazione, arrivare alla “cosa” rappresentata, all'essenza della realtà e del mondo, a ciò che sta dietro o sotto o al di sopra dell'apparenza e ne costituisce l'essenza profonda. La pittura è lo strumento privilegiato di tale ricerca, lo strumento che consente di intuire le tracce dell'essere e di rivelarle vivamente.

Un compito immane, estenuante, che logora il ricercatore anche fisicamente, un compito al quale la fotografia, anzi quella particolare tecnica fotografica che è la polaroid, può dare un notevole contributo. Vale la pena ricordare che Manai usava il modello più semplice di polaroid, la XX70, e di essa diceva: la uso “perchè la polaroid riporta la fotografia alle sue origini. Non avendo negativo, la foto scattata è un pezzo unico, è come un dagherrotipo, è un unicum, c'è solo quello”. E' interessante notare che la polaroid, allora la più evoluta delle macchine fotografiche, riportava la fotografia, alla cui invenzione può essere fatta risalire l'epoca della riproducibilità tecnica, all'aura del pezzo unico, esattamente come un quadro. Ma non solo per questo Manai usava ossessivamente la polaroid, bensì anche per l' immediatezza, lontana dalla pittura (ma non troppo, basti pensare all'influenza della fotografia sugli impressionisti), con cui si può fissare la realtà. A proposito di realtà, richiamo uno dei protagonisti della storia del cinema, Dziga Vertov. Affermava il grande regista russo che il cinema deve cogliere la realtà in flagrante e a tal fine egli stesso e i suoi kinoki andavano in giro a “rubare” immagini con la cinepresa. Ma la realtà rivelava la sua flagranza, cioè la sua assenza, solo attraverso il montaggio, vale a dire con l'accortamento di immagini diverse secondo un modello intellettuale. Analogamente, Manai fissa la realtà con la polaroid, e già quell'inquadratura è un unicum, poi al posto del montaggio usa i pennarelli o altro per estorcere dalla rappresentazione fotografica l'essenza che continua a nascondersi dietro l'apparenza. Anziché uno sviluppo e una stampa chimici, come avviene per le normali fotografie, l'artista usa la sua perizia manuale, la sua capacità pittorica, per rivelare la realtà profonda e invisibile all'occhio dell'immagine catturata. Ecco gli autoritratti, con o senza maschera, le maschere (giustamente è stato citato Ensor), i volti, i corpi, gli artisti, le opere da lui dipinte o disegnate, i carboncini e gli acetati, gli amici, la fenomenologia del suo universo quotidiano segnato leggermente o quasi interamente coperto dal colore per lasciarne emergere qualche frammento. L'intervento pittorico, come il montaggio per Vertov, segue un modello intellettuale che trasforma il guardare in vedere. E' noto, infatti, che si guarda con gli occhi, ma si vede con il cervello, cioè con l'intelletto, e Manai, va oltre la percezione fenomenica dell'occhio per cogliere i frammenti dell'essere, i reperti dell'origine, attraverso la pittura.

Di qui la centralità delle polaroid in questa mostra, l'esemplificazione più evidente di tutto l'operare di Manai, una creatività intellettuale tesa spasmodicamente, ad oltrepassare la realtà così come appare e si presenta per rendere visibile qualche sprazzo dell'essenza del mondo

Alfredo Pirri

January 28, 2010 de'Foscherari
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Misura ambiente - 27 Gennaio -  30 Marzo 2010

L'opera, che occupa grandeparte del pavimento della galleria è composta da elementi incristallo, simili a grandi vetrate precipitate a terra su cui è possibile camminare. Nella chiesa, dove è stata per la prima volta installata, le linee prospettiche, realizzate con piume contenute nella struttura,  andavano a perdersi alle spalle dell'altare, fuori dal perimetro della Chiesa. Nella Galleria De Foscherari la stessa opera sarà  mostrata in maniera "scomposta" in modo che il fuoco prospetticorisulti mobile ed eccentrico rispetto allo spazio espositivofacendone perdere la possibilità di una percezione unitaria. Insieme a quest'opera ne saranno esposte altre appositamenterealizzate per la mostra; una in particolare (Senza titolo, 2009)  occupa un angolo della galleria, non immediatamente visibile dallo spettatore che entra dalla strada. Si tratta di una   sculturaconcepita per essere mostrata negli angoli, dove siracchiude come in un luogo protetto ed ultimativodal qualespingersi in avanti per parlare allo spazio e al visitatore. Un'operacomposta da una grande quantità di fogli di plexiglas piegaticome fossero libri aperti con l'interno rivolto versol'osservatore e sul retro dipinto di rosso in modo che ogni singolo"libro" sia allo stesso tempo proiettore e schermo di luce e colore, una sorta di biblioteca verticale dove accumulare pagine bianche che parlano del silenzio da cui provengono e a cui sono destinate. Altre opere, di dimensioni più piccole, realizzate in cartone museale e plexiglas, saranno disposte sulle pareti definendo un orizzonte frammezzato, lieve e luminoso che si espande orizzontalmente in una linea interrotta ma infinita allo stesso tempo. Tutta la mostra sembra sporgersi e originarsi da un angolo dellospazio per proiettarsi sul piano a terra e su quello orizzontaledelle pareti. E' come se la richiesta (quasi l'appello) a unordinato quanto forte "raccontare" proveniente da quell'angolo venisse prima accolto e poi tramutato in differenti energie daglialtri piani percettivi e sensibili. La galleria si tramuta quindi nella pagina bianca su cui scrivere queste tensioni.

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Germano Sartelli

October 24, 2009 de'Foscherari
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Ottobre - Novembre 2009

La Galleria de’Foscherari inaugura la mostra personale di Germano Sartelli , nella quale saranno esposte le ultime opere da lui realizzate. L’artista , uno dei più interessanti dell’attuale panorama italiano, si è caratterizzato in più di cinquant’anni di attività per la coerenza stilistica e l’implacabile rigore della sua ricerca condotta sulla natura. Non la natura verde, ma un habitat abbandonato , un mondo che conserva degli uomini solo il ricordo . Questo universo non è desolato, ma è colto nelle sue frange marginali, nei suoi frammenti, nei suoi aspetti residuali con frequenti tracce umane divenuti reperti archeologici. Assieme alle foglie secche , alla paglia ,al fieno , alle ragnatele alla terra e ai vimini Sartelli ha creato palpiti poetici con carte strappate , metalli corrosi , lamiere arrugginite ,barattoli schiacciati, mozziconi di sigaretta e carte di mozziconi alonate dalla brace. Quasi che solo la marginalità del frammento consentisse ancora il fare estetico , un fare sottotono dimesso, ma profondo e vibrante come una partitura musicale muta per chi non sa leggere le note e coinvolgente quando viene eseguita. Le ultime carte sembrano segnare un nuovo approdo del nostro artista: la natura è esplosa irradiando i suoi frammenti sulla materia  cartacea , quasi un universo appiattito su un foglio le cui meteore sembrano forarlo per andare oltre verso l’ignoto. Su questo piano Sartelli  pare anche volerci mostrare come il microcosmo rifletta il macrocosmo: al big bang dell’universo fa riscontro ad esempio l’esplosione di una bottiglia di vino che colora la carta di rosa e vi disegna una fantasia di frammenti vitrei . L’esposizione comprende una quindicina di opere tra carte tele e sculture.

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Mainolfi - Ontani - Salvo

January 24, 2009 de'Foscherari
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Negli anni -  21 Gennaio - Marzo 2009

Mercoledì 21 Gennaio, alle ore 18.30, si inaugura alla galleria de’Foscherari di Bologna, via Castiglione 2/b, una mostra di opere di Luigi Mainolfi, Luigi Ontani, Salvo, scelte da Nino Castagnoli in accordo con gli autori e documentanti l’arco di una esperienza ultra  trentennale che ha visto i tre artisti concorrere, ciascuno con la propria forte personalità, alla  definizione di un nuovo clima espressivo che si è andato sempre più affermando, nel corso degli anni Settanta, congiuntamente al progressivo esaurimento delle esperienze più radicali dell’arte concettuale. L’opera dei tre autori, a partire dagli inizi del decennio si è impegnata a riabilitare, ripristinandole, le ragioni del mestiere, azzerate nelle loro proprietà fattuali e nel loro strumentario tecnico dalle poetiche concettuali più oltranziste.  Pittura e scultura hanno così ritrovato propri territori sia immaginativi che iconografici, riconoscendo e rivisitando radici e tradizioni capaci di consegnare all’opera una  potenzialità favolistica che le ha permesso di riattribuire valore e dignità a generi e temi ormai trascurati e consunti. Le opere in mostra presentano, per ciascun autore, uno o più documenti della stagione primeva del nuovo corso espressivo, insieme a testi della stagione attuale della loro ricerca, in gran parte realizzati espressamente per l’occasione della mostra. 

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Luigi Ghirri

October 23, 2008 de'Foscherari
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Ghirri di musica - 23 ottobre 2008 - 23 gennaio 2009

 

Luigi Ghirri è stato uno dei maggiori fotografi italiani operanti nel secondo dopoguerra e, come sempre più diffusamente si va riconoscendo anche in campo internazionale, uno dei più sottili ed inventivi interpreti del linguaggio fotografico contemporaneo. Nato a Scandiano, vicino a Reggio Emilia, il 5 gennaio 1943, Ghirri inizia il proprio sodalizio con la fotografia nel 1970, dopo avere accostato e conosciuto, attraverso l'amicizia di alcuni artisti modenesi, l'esperienza dell'arte concettuale ed averne tratto suggerimenti e stimoli per la propria iniziazione. L'orizzonte dell'esperienza fotografica internazionale e l'ammirazione, sempre dichiarata, per il lavoro di autori come Walker Evans, Robert Frank, Lee Freedlander, William Eggleston, costituiscono un ulteriore appoggio per la formazione di una sensibilità e l'elaborazione di un lingaggio che faranno presto di Ghirri un protagonista della nuova scena fotografica: imprevisto e difficile da catalogare entro categorie e definizioni critiche già costituite; ma facile da iscrivere nel registro dei poeti più erratici e mai paghi di esplorare i territori mutevoli della visione e dell'immaginazione. 

Compagno e amico di tanti artisti, architetti, registi,scrittori, nell'arco di una vita troppo breve - muore improvvisamente nella sua casa di Roncocesi il 14 febbraio 1992- Ghirri incontra un giorno, per un destino preparato dalla sua smisurata passione per la musica - Bob Dylan il suo idolo incontrastato e, con le sue canzoni, compagno di infinite ore di vita e di lavoro - Lucio Dalla, intrecciando con lui un intenso rapporto di amicizia e una feconda intimità creativa. Dalla lo vuole a più riprese, nell'arco del triennio 1985-1988, testimone e interprete visivo dei suoi viaggi, dei luoghi a lui più cari, dei suoi concerti e del polifonico e cangiante spettacolo offerto dal mondo che li corona. Nasce così un catalogo generoso e intensissimo di scatti, fino ad oggi mai concesso alla curiosità del pubblico e all'interesse degli amatori e, da quel fondo, corposo e segreto, nasce l'idea di questa mostra, intensamente e amorevolmente voluta da Dalla, che, associando nella scelta delle opere, alla confidenza del proprio sguardo, l'esperienza di "curatore" di Nino Castagnoli, ha portato alla confezione di un'antologia emozionante che, attraverso una sessantina di stampe, ci rende testimoni di un dialogo autentico intercorso tra i due artisti e da Ghirri trascritto nelle immagini consegnate all'obiettivo: lungo strade che conducono a luoghi vicini e lontani, lungo itinerari di terra e per rotte di mare. 

Una mostra, dunque, che vuole consegnare un nuovo, significativo paragrafo al racconto della storia di un poeta capace di "straniare" la rappresentazione degli oggetti e dei paesaggi più consueti e famigliari fino a renderli, con apparente, totale naturalezza, fonti incontaminate e intangibili di incantamento e iscriversi, con qualche pregio, nella bibliografia sull'autore. A questo scopo, la mostra è accompagnata dall'uscita di un volume, che raccoglie, oltre alle riproduzioni delle opere in esposizione, una successione di testi di Lucio Dalla, Luigi Ghirri, Paola Ghirri, Nino Castagnoli.

 

Lucio Dalla

Ah se l'anima avesse gli occhi...!

 

Ah... se l’anima avesse gli occhi...! – si diceva ridendo con Luigi, quando ascoltavamo musica sul vinile o a un concerto, tra uno starnuto, un’extrasistole, fino a un “Anche se muoio adesso sono felice” al concerto di Bob Dylan a Napoli. – Sai quanti problemi in meno avrebbero le “tubature” che portano le lacrime alla fontanella degli occhi!? – Mi diceva.

Questo perché Luigi quando nacque nel ‘43 (il mio stesso anno) nasceva con la musica anche dentro alle ossa. Ogni volta che si sentiva suonare anche solo un campanello o il latrare di un cane nella notte, anche in un mio concerto o di Dylan (che era il suo grande amore) già gli scattava l’idea della foto o l’arrivo di lacrima o un petino di soddisfazione fisica da sigaretta dopo il caffè e via così!

Luigi e Paola, sua moglie, spesso mi seguivano in giro per il mondo e la musica, oltre lo stare bene insieme, era la scusa che ci faceva viaggiare. Parigi una settimana all’Olympia, New York, Boston al Berklee College, Mosca, ecc., sempre con le orecchie aperte e la macchina fotografica in mano e il sudorino nel cuore.

Nella mostra che state vedendo c’è qualche foto delle più di 10.000 che lui ha scattato e pensato nei nostri giri ma soprattutto c’è lui con me e questo un tantino mi commuove, come ogni volta che sul palco sto per cominciare un concerto e non posso non pensare anche a lui. Ciao Luis... bella la vita, eh...

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Paola Bergonzoni Ghirri

Se rinasco voglio suonare, cantare e basta

Mi chiedono di raccontare perché c’ero in quei giorni, con loro, con tutti loro. Negli studi di registrazione, nei viaggi in autostrada, ai concerti, in America, al mare, sul mare, nel mare. Tutti loro, visti solo alla televisione, al cinema, le loro voci, dei dischi, delle loro canzoni che, come le fotografie, implacabili, ti fanno ricordare. Ma io non sono più tanto sicura di voler ricordare perché dopo arriva la nostalgia che non serve a niente. E allora per andare un po’ più avanti cerco nella mia testa dei pezzettini di ricordi che per ora frullano come i pop corn dentro alle grandi sfere di plastica trasparente, nei luna park. Ed è lì che ci troviamo Luigi ed io, davanti al baraccone del “Giro della Morte”. Luigi in sella alla sua moto con un casco di cuoio, io in piedi accanto a lui con un costume luccicante le calze a rete smagliate, le piume in testa. Lucio ci sta dicendo che è così che ci ha immaginati da vecchi. È proprio un visionario, penso, ma non lo dico.

Gli anelli, le collane, gli amuleti, i cappelli, i tasti bianchi e neri. La musica.

Ho detto a Lucio che ha delle belle mani e lui non mi crede e non mi crede nemmeno il benzinaio di Bevano in autostrada che vede Lucio, Gianni, Luigi e me e dice – C’è anche la Caselli – ma io non sono mica Caterina Caselli! Ascoltiamo le sue canzoni in macchina trasmesse dalla radio e siamo lì seduti vicino a lui, penso che è una cosa stranissima. Stendiamo tutte le fotografie sulla moquette nera della Fonoprint, le guardiamo insieme e ridiamo soddisfatti perché è stato tutto bello. Di notte, in fila indiana con una pila, in tanti, nella macchia di Tremiti per andare ad ascoltare il canto delle diomedee, un setter irlandese ci segue, sento freddo alle spalle, ho i capelli umidi e un po’ paura.

Luca ed io stiamo lavando con l’acqua dolce la barca, Luigi e Lucio stanno parlando di Adorno e di Savinio, meno male che Giacomo ci sta preparando per cena qualcosa di buono di sicuro.

Stiamo entrando al Mayflower Hotel e sta uscendo Stefania Sandrelli, si abbracciano, lei e lui, e lei è bellissima nella sua camicia candida, e giovane. Siamo nei camerini dell’Olympia. Lucio inizia a cantare 4 marzo e Renzo dice che non può ricordare tutte le volte che l’ha ascoltata. Guardo lo stipite di una porta e penso – chissà se la Piaff ha guardato una volta proprio quel punto lì.

Luigi questa sera ha esagerato. Dylan qua, Dylan là, non ne poteva più nessuno. Anche Gino Castaldo faceva sì sì con la testa ma secondo me aveva già smesso di ascoltarlo da un bel po’.

Adesso guardo fuori dalla finestra. È mezzanotte e un quarto e le strade sono deserte. NYC by night. Un serraglio di tigri sta attraversando la Quinta strada. Forse è uscito dal negozio di giocattoli di Schwarz perché è proprio lì vicino, non ci sarebbe niente di strano; basta guardare la tavoletta della tazza del bagno di questa stanza che è di madreperla.

A Sorrento invece è tutto strano. Nella smisurata hall dell’albergo c’è un pianoforte un barista assonnato, tante poltroncine di velluto rosso sparse come le stelle in cielo.Un albero di Natale gigantesco. E Oliver Reed, rosso anche lui, che viene verso di noi con passi incerti e un bicchiere di Whiskey in mano. Sembra di essere in America.

Tutti nel teatro stanno cercando Lucio. Nessuno sa dov’è e devono iniziare le riprese del video di “Caruso”. Lo trovo. Dorme per terra tra una fila di poltrone e l’altra. Lui si addormenta dappertutto e dorme pochissimo. Guardo per qualche istante il suo respiro regolare poi decido di svegliarlo, ma mi dispiace.

Il mare di Palmarola è fermo e le occhiate nuotano con noi. Luigi non sa nuotare bene, a rana muove appena le braccia, chiude la bocca e gonfia le guance perché crede di galleggiare meglio, ma rimane sempre fermo nello stesso punto. Allora resta sulla barca e ci fa delle fotografie.

Stasera quando Lucio ha cominciato a cantare “Caruso”, nelle prime file c’erano già delle persone che si commuovevano.

Lucio risponde al telefono e cambia la voce per non farsi riconoscere, dall’altra parte qualcuno c’è cascato e ha messo giù subito. Adesso sta guardando Luigi che sistema in silenzio la macchina sul cavalletto. Una piscina li divide. Vedo che Luigi sta cercando il riflesso speculare di Lucio nell’acqua, credo che non lo trovi. Si guardano, stanno fumando poi si mettono a parlare contemporaneamente.

Siamo in chiesa a Roncocesi, Lucio tiene Adele in braccio. Anche Luigi è piccolo come loro. Don Gianfranco ci parla di Dio e del diavolo. Io non so dire se Dio c’entri con noi, ma sono sicurissima che il diavolo non c’entrerà mai.

Gli leggo il testo al telefono e Lucio mi dice di aggiungere adesso – siamo dei fiocchi d’avena in un vaso di vetro e tra poco saremo anche pop corn.

Roncocesi, 14 settembre 2008

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Luigi Ghirri

Conversazione con Lucio Dalla

Luigi Ghirri. Ho sempre pensato che molto del lavoro svolto dai fotografi italiani avesse una sottile coin- cidenza con le intuizioni di alcuni cantautori italiani, non so, forse una adesione o un interesse per un mondo o paesaggio marginale, o per raccontare certe microstorie, e trasformarle in qualcosa che riguarda- va tutti, cosa ne pensi tu?

Lucio Dalla. Io credo che questo riguardi principalmente il tuo lavoro, quello che dici non è applicabile a molti tuoi colleghi, anche se non ho una conoscenza approfondita, ma per quello che ho visto mi sembra che sia così. Perché al di là di motivi banali, come la professionalità, il modo di inquadrare il soggetto, delle tue fotografie quello che rimane, e che colpisce, è che diventa un prodotto fruibile; in questo senso mi sento vicino al tuo lavoro, perché anch’io sono vicino al pubblico che mi ascolta, come tu sei vicino al pubblico che mi ascolta, come tu sei vicino al pubblico che guarda le fotografie. Inoltre c’è un altro valore, e questo può valere per me, io ad esempio mi ricordo tutte le tue fotografie che ho visto: mi ricordo quella delle due palme con la panchina, quella della cattedrale di Trani e il mare, i due che vanno verso la montagna, e potrei continuare, elencarle tutte. Le tue fotografie hanno qualcosa che me le fa ricordare, io come altri vengo colpito dal guardarle, forse anche perché alla fine mi sembrano, come dire, delle fotografie musicate.

L.G. Cosa intendi con questo termine musicate, che tra l’altro mi piace molto, si sente che amo la musica, che hanno una loro musicalità o gradevolezza?

L.D. Sì, anche questo, ma con musicate intendo dire che hanno un loro suono interno, che hanno un inciso, un ritornello, si sente che sono costruite, che hanno un mixaggio. L’insieme di queste cose, alla fine colpisce il linguaggio- definitivo, che è di varia funzione, ad esempio sembra che non vi sia niente da scoprire, o che il centro dell’immagine non sia mai visivo o visibile, ma sempre un po’ più in profondità, oppure sembra che invece della luce, ci sia come un raggio che illumina le cose e che viene filtrato attraverso di te e la macchina fotografica.

L.G. In un’intervista, qualche tempo fa, dicevo che accettavi di farti fotografare volentieri da me, perché alla fine eravamo entrambi imbarazzati.

L.D. Il mio imbarazzo nasce anche da un po’ di stanchezza, che provo davanti all’obiettivo. Sono anni che non voglio e detesto farmi fotografare, ma non per odio nei confronti del fotografo, ma perché è come un gioco che mi ha un po’ annoiato. Con te, mi diverto ancora, mi piace ad esempio osservare il tuo imbarazzo nel prendere le fotografie, oppure, ti ho osservato molte volte come prendi le fotografie: sistemi la macchina sul cavalletto, esegui tutte le operazioni, e poi al momento dello scatto ti allontani e sembra che tu osservi il mondo con già dentro la fotografia e tu che stai fotogra- fando. Sembra quasi una casualità preordinata, e questo mi diverte. Inoltre in questo momento preferisco fare io stesso le fotografie, e come tu ben sai, è molto più divertente fare le fotografie, che farsi fotografare, inoltre questo ti dà anche la consapevolezza che dietro ogni fotografia c’è una sottile, lieve, forma di violenza e di prevaricazione.

L.G. Un giorno Borges scrisse che alla fine scavando in profondità nella nostra memoria ritroviamo qual- che canzone dimenticata e delle fotografie ingiallite, cosa ne pensi?

L.D. La frase la trovo bellissima, ma mi sembra che valga solo per noi latini, altre culture, come quella anglosasso- ne hanno altri riferimenti quotidiani o piccole litologie. La nostra emozionalità latina passa invece di più attraverso queste cose, fanno parte della nostra quotidianità. C’è però una sottolineatura malinconica, che mi appartiene, non penso mai ad una canzone, per esempio, in termini nostalgici, mi sembra che la canzone o una fotografia siano parte della nostra quotidianità e quindi del presente, significano tante cose, fanno parte della nostra vita, a volte mi sembra possano avere la leggerezza di una foglia.

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Hermann Nitsch

December 15, 2007 de'Foscherari
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Orgien Mysterien Theater- 15 dicembre 2007 - 15 febbario 2008

La Galleria De’ Foscherari presenta nei suoi spazi una mostra dedicata all’artista Hermann Nitsch (Vienna, 1938) dal titolo Orgien Mysterien Theater (Il Teatro delle Orge e dei Misteri). Per l’occasione saranno esposti lavori recenti, alcuni dei quali realizzati appositamente per l’evento, che documentano attraverso diverse tecniche l’opera del maestro, protagonista assoluto dell’Aktionismus viennese e figura centrale nella storia dell’arte europea degli ultimi decenni. Collage e dipinti di grandi dimensioni (200 x 300 cm) trasferiscono nella veemenza del gesto pittorico e nella forza cromatica delle vernici la potenza visiva delle azioni realizzate dall’artista. Colore e sangue si stagliano sulle superfici delle grandi opere, su cui sembrano essersi sedimentati i ricordi delle performance compiute negli ultimi decenni. Gestualità pittorica e atto performativo trovano dunque una consonanza inedita, generando immagini dotate dello spessore temporale e filosofico che caratterizza l’intera opera dell’artista. Un’installazione composta da "relitti" di performance (lettighe, strumenti medici e altri oggetti utilizzati nel corso di diverse azioni), porta di fronte agli occhi dello spettatore gli aspetti più materiali del lavoro dell’artista: anche in questo caso gli oggetti sono pregni di significati e memorie, indizi e tracce di eventi avvenuti, testimonianze e reliquie dell’avverarsi miracoloso dell’atto artistico. Un video sarà incluso nella mostra al fine di documentare alcune tra le più celebri performance e azioni dell’artista, in un percorso storico che dagli anni Sessanta giunge fino a oggi. In occasione della mostra verrà prodotto un catalogo con un’intervista all’artista di Danilo Eccher e uno scritto autografo di Hermann Nitsch dal titolo Das Orgien Mysterien Theater, in cui egli espone le ragioni della propria poetica e delle proprie scelte espressive. Le immagini pubblicate in catalogo documenteranno l’opera di Nitsch dagli esordi risalenti alla fine degli anni Cinquanta fino alle più recenti realizzazioni della sua wagneriana opera d’arte totale, in cui convivono sfrenatezza dionisiaca e armonia apollinea. Hermann Nitsch nasce a Vienna in Austria nel 1938. Fin dal 1957 concepisce una nuova forma di opera d’arte totale (Teatro delle Orge e dei Misteri), in cui vengono messi in gioco tutti e cinque i sensi nel corso di azioni e performance dal forte carattere rituale e religioso. Nel 1961 fonda con Günter Brus e Otto Mühl il gruppo artistico del Wiener Aktionismus in cui le tecniche della pittura gestuale vengono applicate a una forma espressiva che unisce teatro, arte e musica, coinvolgendo in prima persona l’artista nelle condizioni più estreme. L’artista ha combinato la propria attività performativa con esposizioni, conferenze e concerti in Europa, America e Asia. Sue opere sono incluse in prestigiose collezioni, tra cui quelle dello Stedelijk Museum di Amsterdam, della Tate Gallery di Londra, del Guggenheim Museum di New York. Ha esposto presso il Museum Moderner Kunst Stiftung di Vienna nel 1978, 1999, 2002 e 2004, alla Stadtische Galerie im Lenbachhaus di Monaco nel 1988, al Konsthallen Göteborg nel 1997. Ha inoltre partecipato a Documenta V e VII a Kassel e alla Biennale di Sydney nel 1988. Nel 2007 viene fondato a Mistelbach, a nord di Vienna, l’Hermann Nitsch Museum.

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IL SENSO DELLA VISIONE NELL’O. M. THEATER  - HERMANN NITSCH 

1. Il mio teatro è un teatro visuale, appunto l’imparare a guardare è una richiesta importante del mio lavoro. Mai nella storia del teatro il visibile, quello che si accoglie con l’occhio, fu così importante come lo è nell’O.M. Theater. Quando vedevo che la lingua da sola non aveva più la potenza di esprimere quello che volevo realizzare, abbandonai il teatro del parlare e del raffigurare, e tentai di mettere in scena, all’interno del mio teatro, avvenimenti reali. Tutti i cinque sensi dello spettatore dovevano essere coinvolti reclamandoli in modo diretto. Un avvenimento reale si può registrare tramite tutti e cinque i sensi. Costruisco avvenimenti che invitano gli spettatori ad annusare, assaporare, guardare, udire, palpare con intensità. 

2. Io pretendo un guardare diverso. Quel vedere capace di percepire soltanto gli oggetti quotidiani, lisci, lindi con lo scopo di distinzione e che ormai può registrare soltanto termini linguistici già pronti, non mi interessa. Tengo, invece, a un modo di osservare che abbiamo perso e che percepisca gli oggetti da vedere in modo assolutamente sensoriale. Le nostre vie asfaltate, le nostre autostrade con la loro segnaletica univoca si mostrano alla vista soltanto nella loro nettezza funzionale. La viabilità a favore della velocità lascia intravedere poco del paesaggio originale. Soltanto con un incidente stradale tutto cambia. In questo caso la carreggiata è sporca di sangue, di corpi feriti o morti ed è bloccata da macchine distrutte, una vista orribile, inorridita, abissale ci viene improvvisamente imposta e richiesta. Osserviamo forzatamente con tutti i nostri sensi e siamo avidi di un evento. Le pulsioni (energie) frustrate dei curiosi vogliono vivere, pure a prezzo della morte. All’improvviso ci confrontiamo con l’altro lato della nostra realtà sensoriale. Ogni forte sensazione porta incondizionatamente a nuove esperienze, al di là della morale. 

La varietà di merce che ci mostrano quotidianamente i supermercati è confezionata per lo sguardo superficiale in modo appetitoso e lindo, igienico e gradevole. Già in Italia, in un mercato qualunque, si amplifica l’offerta visiva. C’è puzzo. Carni, interiora, pesci e frutti di mare gelatinosi giacciono crudi, rigogliosi e dai colori sfarzosi sui banchi. Carcasse di animali intere e spaccate, corpi macellati e scuoiati, pendono dalle bancarelle. Si distingue ancora l’aspetto originale dell’animale. Non di rado pomodori, frutta, grappoli d’uva sono eccessivamente maturi e sorvolati da vespe. I frutti spesso sono morbidi, sul punto di diventare marci e quasi fermentati. A volte sono piuttosto repellenti alla vista. Si sa però, che addentandoli la loro polpa sarà di una morbidezza benefica e di una dolcezza intensissima. Ci sono liquidi versati, latte, vino, olio. Puzzo di pesce che evoca l’odore del mare, odore di carne cruda e di trippa, fino all’odore di frutta troppo matura in via di fermentazione e di vino versato, intensificano l’effetto ottico di quei mercati che ancora non sono condizionati dall’organizzazione sfruttatrice del consumo di massa. Credo che sia noto quello che per me è importante. Dovremmo raggiungere una capacità di guardare piena e sensuale (sensorialmente intensa) che ci trasmetta le cose percepite non secondo la loro superficie, ma piuttosto secondo la loro sostanza interiore, direi addirittura la sostanza del gusto. Il vedere comune di oggi è appiattito fino a diventare una percezione non sensoriale, palesemente funzionale, senza applicare la profondità dei sensi. Tutto ciò che l’ordine della civilizzazione ci proibisce, o quasi, di registrare, dovrebbe stimolarci a una registrazione intensissima dell’esistenza. Del latte versato, un uovo sbattuto, un tuorlo spalmato, frutti schiacciati, grasso cosparso, carne cruda, viscere, intestini, escrementi, sangue spruzzato, sperma, vernice rossa versata, pozzanghere di pioggia ecc. invitano a una registrazione intensa, vengono registrati in profondità e impegnano il nostro bisogno di sensazioni acute. Un guardare pieno e sensuale non può rimuovere il tragico, la morte, la putrefazione, il marcio, deve coinvolgerci nel decorso della creazione. 

3. Se adesso si parla sempre del VEDERE, penso che quello che vale per il vedere, valga altrettanto per tutti gli altri nostri sensi. Il vedere è sostenuto dal complesso di tutti i sensi e per sua indole funziona correttamente soltanto in combinazione con essi. Una sinergia sinestetica è indispensabile. Vedere in modo intenso ci esorta ad annusare, assaporare e palpare in modo più intenso. Viceversa, gli altri sensi si intensificano altrettanto reciprocamente. Ogni singolo senso funziona per noi insieme agli altri. La riduzione a un solo senso significa perciò isolamento, ed è sbagliato che un senso si sviluppi meglio per la mancanza degli altri sensi. Non esiste un importante compositore che sia nato non vedente e perfino i grandi interpreti ciechi sono rari. Entrando ancora più nel dettaglio: l’offerta di consumo non ci può neanche prescrivere l’annusare e l’assaporare. Vanno intensificati e sensibilizzati in conformità alla ricchezza che ci offre la nostra natura interna ed esterna, non da ultimo in conformità all’inalterata specifica ricchezza delle sostanze commestibili. Lo stesso vale per il palpare e l’udire. Vogliamo immedesimarci profondamente nelle cose, aprirci ai suoni che sono al di là delle nostre abitudini acustiche e che si estendono fino alle grida. Di solito, gli animali sono dotati di maggior precisione e profondità nella percezione sensoriale di quanto non lo siano gli esseri umani. Perché non dovremmo includere nel nostro essere umani anche le facoltà essenziali e positive dell’animale, ovvero, perché non le sviluppiamo e coltiviamo? Una cosa non esclude l’altra. La nostra evoluzione è stata spesso troppo veloce e troppo unilaterale. Abbiamo creduto di poter rinunciare a certi campi di esperienze, particolarmente collegati ai nostri sensi, a favore dell’acume intellettuale. Oggi lo stesso acume dell’intelletto ci dice che non lo possiamo proprio fare. Non intendo tornare indietro all’animalità, tirar fuori il passato, ma piuttosto far evolvere quel qualcosa che è dentro di noi, che è presente, ma è stato trascurato durante il percorso di determinate fasi di sviluppo. Le pulsioni generate dalle energie primarie della nostra natura pretendono più di un semplice vegetare. Se questa necessità basilare non viene soddisfatta, si generano rimozioni e nevrosi. 

4. Come mai tutto quello che è viscido, carnoso, morbido, bilioso, liquido spinge verso un intenso sentire? Ho tentato più volte di trovare delle risposte a questa domanda, ma non ci sono mai riuscito in modo esauriente. Nonostante ciò [ecco] alcune riflessioni sulla domanda precedente, che vanno oltre la teoria anale di Freud. Tutto quello che è viscido e umido si può associare con la nostra fisicità, soprattutto con la nostra corporeità fatta di carne, di organi umidi e molli, di liquidi ematici, di secrezioni e di sostanze che attraversano il corpo, quelle che vengono rilasciate, come gli escrementi, il sangue mestruale, l’urina, lo sperma, la saliva, il sudore, il vomito e così via, ma si può pensare anche al cibo mangiato, inglobato, masticato, amalgamato con la saliva, indigerito, quasi digerito e digerito. Veniamo alla luce avvolti nella mucosità. Tutte le sostanze nominate vengono percepite da chi ha un sentore comune come schifose. Tutto quel- lo che è stato elencato viene registrato intensamente, ma provoca una percezione di ribrezzo e innalza una barriera contro la sensazione di schifo. Solamente il medico, il macellaio, il cacciatore, il contadino, il cuoco, la donna di cucina e l’artista si occupano del settore delle sostanze elencate Frequentemente è l’aggressione, la ferita inferta a un altro essere, l’uccisione, che ci mette a confronto direttamente con le sostanze interne alla fisicità carnale. Il sangue sprizza e fuoriesce da una ferita e la nuda, cruda carne della piaga diventa visibile. Solo con l’uccisione si rivela la carne e il sangue dell’ani- male cacciato. Durante lo sventramento, si vedono gli organi viscidi e molli e i fluidi che irrorano i nostri corpi. Il colore rosso appartiene alle cromie più forti che conosciamo. Ha un intenso valore di segnalazione che porta la nostra organizzazione psicofisica in uno stato di choc. Ogni volta che qualcuno viene ferito, quando c’è un assoluto pericolo di vita, fuoriesce sangue vivo e rosso. Forse il rosso, il colore del sangue, è considerato uno dei colori più belli e vivaci, perché è collegato con l’attacco e il pericolo di vita. L’aggressore e il cacciatore della preistoria seguivano l’intensità delle loro percezioni, dominate da una rapace voluttà di uccidere, poiché significava la sopravvivenza e l’alimentazione fino alla ‘crapula’ e la sazietà. Per l’uomo preistorico il vedere, capire e palpare degli organi interni, delle umide viscere della vittima, era collegato al profondo percepire naturale e sensoriale in relazione al feroce comportamento assassino, che filogeneticamente risiede in noi. È per noi un grande trauma, il fatto che uccidiamo e mangiamo i nostri fratelli del regno animale (e lo dobbiamo fare). Le esigenze di igiene, non immediatamente ravvisabili, che quasi vietano all’uomo contemporaneo normale di avere dei contatti con l’umido e il viscido, significano paura della morte e distruzione, paura della reale comprensione della vita, ovvero che il desiderio di cacciare e di uccidere risieda profondamente in noi. Di pari passo, vi è un timore nel riconoscere che, mentre mangiamo della carne, di fatto e quasi senza saperlo, soddisfiamo indirettamente la nostra volontà di uccidere. Rinneghiamo questo dato pagando alcune persone, i macellai, che uccidono per conto nostro. La carne che ci viene dispensata diviene irriconoscibile, viene fatta a pezzi e impacchettata e ci fa dimenticare che ci nutriamo di animali morti. Il divieto di uccidere è per tutti noi un tabù apparente, giacché quotidianamente si uccide. Ma noi NON CI SPORCHIAMO LE MANI. La paura del venir uccisi e l’istinto di uccidere è così forte, che alla sola vista di qualcosa di umido e viscido ci proteggiamo da esso. Non si vuole aver nulla a che fare con la visione delle crude parti organiche del corpo. Il muco e gli umori interiori ci riconducono al regno della morte. Ma proprio la sensuale intensità, con la quale ogni sostanza umida e viscida si trasmette, viene stimolata dal comportamento ferino, dapprima non ravvisabile, e dal desiderio inconsapevole di uccidere. Siamo noi la bestia più forte, insaziabile, irrispettosa e assassina. Questa comprensione appartiene alla tragica realtà della nostra esistenza. E la nostra cultura è una cultura di animali rapaci. Intorno al trauma della vittima e dell’uccisione si intrecciano tutti i miti. 

5. Fino ad ora molto si è parlato della nostra innata, ferina necessità di uccidere. Chi crede che io volessi glorificare l’uccisione o addirittura esortare a uccidere o richiedere che ciascuno di noi debba uccidere per soddisfare la nostra necessità in proposito, non mi avrebbe compreso a fondo. L’uccisione va riconosciuta come dato di fatto tragico nel nostro essere. Dobbiamo accettare costituzionalmente basilare, che abbiamo bisogno di uccidere per continuare ad essere vivi, è il processo della creazione che ce lo richiede. La restrizione di un’alimentazione vegetariana minerebbe la nostra fondante e creativa forza propulsiva. Non corrisponderebbe alla nostra specie. 

Il desiderio di uccidere deve essere tolto dalla rimozione e va riconosciuto secondo la sua realtà. Il bisogno dell’intensità dell’atto uccisorio deve essere cancellato da una vita fondamentalmente intensa, da una percezione sensoriale, sensibile e intensa delle esperienze e da un amore irrefrenabile per la creazione, attraverso un estatico ed ebbro vedere, assaporare, sentire, udire e palpare. La condizione del vivere intensa- mente e di per sé ebbrezza, la condizione dell’AMORE ci libera dalle necessità rimosse, inconfessate e arcaiche. 

6. Le sostanze che segnalano la nostra ferinità diventano visibili nelle mie azioni. Esse affondano nella profondità della nostra costituzione psicofisica. Soltanto quando la barriera del ribrezzo, che ci fa dimenticare la nostra bestialità, viene rimossa, si potrà riconoscere quanto la carne e il sangue sono importanti per il mio teatro analitico, che vuole offrire/presentare la tragica realtà del nostro essere umano fino alla tragica condizione della nostra creazione. In questo caso ‘tragico’ non va inteso nel senso di disperazione e rassegnazione, bensì come il tragico che è la morte, presente nella creazione. Il fallimento o la mutazione attraverso la morte devono avvenire, affinché si possano compiere fino all’eternità una consapevolezza vigile e un percezione estatica e felice. La tragicità viene superata attraverso un sì profondo e perenne alla vita. 

7. Gli artisti, con la loro istintiva analisi verso qualunque fenomeno estetico, sono affascinati, al di là del bene e del male, da quel mondo viscido, carnoso e bagnato. Gli artisti sono stimolati dalla nostra sensualità e scoprono qualcosa di «bello» anche dietro alla barriera del ribrezzo. Penso agli artisti del Rinascimento che, a costo della vita, sezionavano i cadaveri, a Rembrandt che dipinse diverse sezioni anatomiche e buoi macellati. Rientra nella tradizione degli olandesi il rappresentare nelle loro vitali nature morte, di continuo, animali sventrati, pesci freschi, scintillanti nella loro polpa bagnata e frutti di mare. Inoltre, penso a Delacroix che di mattina andava al mattatoio per studiare lo splendore cromatico di quel- lo che vi avveniva. E infine, si può riscontrare l’interesse per gli animali macellati in Lovis Corinth, Oskar Kokoschka, Chaim Soutine, Francis Bacon, e nei Surrealisti. Non si può, fra l’altro, dimenticare, che al centro della pittura cristiana c’è la Passione e l’uccisione di un Dio che ha offerto a tutti il suo sacrificio di carne e di sangue come pasto e libagione. Nella poesia si può in pari misura riconoscere l’ambito di questo interesse a partire da Omero, attraverso le tragedie greche, fino alla modernità. 

8. Soltanto la pittura informale ha dimostrato, al di là di ciò che veniva dipinto, la gioia diretta e sensoriale per le sostanze cromatiche, i liquidi colorati e le paste di colore. Con questo è iniziata la mia forma teatrale. Partendo dall’intensità sensoriale, che le sostanze e i liquidi suscitano, si è sviluppata una pittura d’azione che doveva soddisfare il bisogno di fare un’esperienza intensa attraverso i sensi. Ho versato del colore rosso su delle superfici orizzontali e verticali e nel farlo sono entrato in uno stato di eccitamento estatico. Volevo che avvenisse proprio quel percepire pieno e sensuale, di cui ho parlato, ostacolato e allontanato dalla civilizzazione. Ho definito il mio atto pittorico di allora come uno sfogo. Delle energie sop- presse dovevano uscire fuori e, attraverso una percezione esteriore, diventare consapevoli. La superficie pittorica veniva presto oltrepassata e superata. L’eccitazione provocata dalla pittura richiedeva un’esperienza ancora più intensa e sensoriale. Della polpa di frutta schiacciata, del tuorlo d’uovo viscido, della carne cruda e bagnata, del sangue, del siero e delle pecore macellate venivano utilizzate per le azioni che avvenivano non più su una superficie pittorica, ma in uno spazio. Durante lo sventramento, il cadavere della pecora squarciato, scuoiato, e irrorato di sangue vomitava e partoriva delle interiora dai colori ematici umidi, d’un rosso vivo e luminoso. Le budella turgide, piene di escrementi venivano tastate e strappa- te. La procedura dell’action-painting si amplificò fino al teatro, fino al procedimento drammatico. Il punto finale dello sfogo dionisiaco innescato per via analitica veniva raggiunto attraverso un’esperienza di pro- fondo eccesso sado-masochistico, il lacerare la pecora. Nell’atto cultuale dell’animale smembrato viene citato in sua vece l’evento mistico del corpo lacerato di Dioniso. Il desiderio represso di un vissuto possibilmente intenso, che miscela libidine procreativa e voluttà assassina con tutta l’esperienza estatica, diventa visibile come avvenimento teatrale e drammatico. L’inespressa avidità di uccidere viene elaborata, rive- lata e resa cosciente. La pittura dell’O. M. Theater divenne il rituale introduttivo per una nuova forma di teatro, che scopre il male fondamentale di una insufficiente esperienza sensoriale, di un non compiuto vivere. La catastrofe del dramma conduce la nostra propria intensità sensuale al punto finale. Le nostre intenzioni represse prorompono da noi in modo ebbro ed estatico, si riversano in un eccesso sado-masochistico (il cui esubero verte nella distruzione della morte) rivelando una corrente fondamentale di (trattenuta) vitalità, che ci può completare soltanto in momenti veramente grandi (qualora non ci distrugga), poiché va oltre la vita e la morte e significa l’eterno mutamento dell’essere. Ancora una volta: la voluttà assassina e la libido amorosa si fondono. L’assimilazione, ovvero la metabolizzazione, avviene. La presenza della morte permette che quello che è vivo si compenetri uccidendo. La vittima e il carnefice sono tutt’uno. La morte e la vita sono soltanto un flusso di voluttuosa mutazione, delle forze vengono citate e rilasciate, che vanno al di là di noi, le quali, qualora ci riempiano consapevolmente, provocano uno stato d’essere intenso, che apparentemente ci solleva dalla casualità della nascita e della morte. Si percepisce un essere perenne che va oltre la vita individuale. L’universo ci attraversa tuonando e distruggendoci quasi. Un’evasione dalla vita quotidiana, media, tiepida permette che si liberi un eccesso di energie. Le energie prorompenti si volgono verso la distruzione, attraggono la morte e vogliono tornare indietro verso un nuovo spiegamento di forze. 

L’evasione da una norma costrittiva ci richiede tutta la nostra forza e vitalità. Altrimenti, l’energia trattenuta prorompe da noi, ci cala profondamente nella nostra esistenza, nella nostra temerarietà, nella nostra estrema posizione prometeica del creare, che non teme né la vita né la morte (avviene un’identificazione con la creazione, con il processo e con il ritmo della creazione). È la creazione stessa. Non (solo) il mantenimento della vita, il mutamento del mondo, che vuole più della morte e della vita, la metafisica diventa una necessità (coscientemente) vissuta. La vita (creativa) vissuta intensamente ci porta in prossimità della morte. Quello che avviene intensamente è la mutazione del mondo, che significa più della vita e della morte, le quali sono soltanto degli stadi temporanei del complessivo processo creativo. Comprendere la mistica dell’essere, l’affermare e capire il cambiamento del mondo, vuol dire una metafisica che viene portata fino alla dimensione dell’evento. 

9. Il guardare è posto in strettissima relazione con tutto quanto finora detto, attraverso una presa di visione intensa del mondo circostante, veniamo tratti nella profondità dell’essere. Poniamoci oltre la dimensione tragica dell’atto drammatico davanti all’evento da osservare, proviamo ad avere un’impressione esteti- ca senza che contenga un significato e, se vi riusciamo, ad accoglierla. Quel che viene visto è semplicemente bello, cattura profondamente. Un animale viene scuoiato, ma quale splendore si rivela! Vengono mostra- ti fiori di carne, morbidi muscoli, umidi, caldi, colorati come le rose, spesso dai riflessi madreperlati e sangue caldo, eccitantemente vivo, acuto, stridulo, scarlatto, sprizza dal corpo e si riversa su teli bianchi. Il corpo dell’animale viene fatto a pezzi. Con coltelli affilati vengono attentamente tagliate e alzate le pareti addominali che contengono le budella. UN FIORE VIENE SVENTRATO, PETALI DI CARNE ROSA TEA si schiudono. Carne di rosa tea, vischioso color rosso-uovo. Sostanze simili al tuorlo, giallo-polline, mielose. La sacca dello stomaco diventa visibile. Gli intestini tremolano molli, fumanti, caldi e gelatinosi, come muscoli guizzanti, facilmente vulnerabili come l’epidermide su un liquido denso, sulla quale si versano delle gocce di succo di limone. Sussulto di nervi, color garofano. In questo bouquet di fiori composto di carne viene compresa tutta la gamma dei colori, da quelli della lingerie rossa, dalle cromie rosate e ancora tiepide del corpo di donna, alle tonalità viola azzurro, violetto e ciclamino fino ai toni verdi. Gli intestini pesanti e colmi di escrementi cadono mollemente umidi a terra mentre il toro viene issato. Dal corpo viene strappata la carne dei polmoni, colorata di rosso cinabro vivo, inumidito dal sangue pompato, arterioso e ossigenato. È come se grandi quantità di tulipani rossi, gladioli e polpa di rosa cadessero dal corpo spaccato per terra. Tutte le cromie dei fiori cadono sul pavimento insieme alle interiora. I colori vengono irradiati dall’interno delle sostanze. Il giocatore partecipa tramite l’osservazione, interiorizza tutto e lo percepisce fino alla interna essenza della sostanza, che è la mutazione oltre il divenire e perire. È semplice- mente bello vedere i nostri organi interni, i polmoni, il cuore, i reni, il fegato, lo stomaco, gli intestini, i vasi sanguigni e la LINFA VITALE del sangue. 

Sempre di nuovo è il colore che fa sì che gli organi interni risplendano anche se normalmente sono celati alla luce. Similmente accade ai pesci degli abissi, che sono forniti dei colori più sfavillanti nell’oscurità più recondita del mare. Sarà che i colori hanno una funzione 

Comprendere la mistica dell’essere, l’affermare e capire il cambiamento del mondo, vuol dire una metafisica che viene portata fino alla dimensione dell’evento. 

9. Il guardare è posto in strettissima relazione con tutto quanto finora detto, attraverso una presa di visione intensa del mondo circostante, veniamo tratti nella profondità dell’essere. Poniamoci oltre la dimensione tragica dell’atto drammatico davanti all’evento da osservare, proviamo ad avere un’impressione esteti- ca senza che contenga un significato e, se vi riusciamo, ad accoglierla. Quel che viene visto è semplicemente bello, cattura profondamente. Un animale viene scuoiato, ma quale splendore si rivela! Vengono mostra- ti fiori di carne, morbidi muscoli, umidi, caldi, colorati come le rose, spesso dai riflessi madreperlati e sangue caldo, eccitantemente vivo, acuto, stridulo, scarlatto, sprizza dal corpo e si riversa su teli bianchi. Il corpo dell’animale viene fatto a pezzi. Con coltelli affilati vengono attentamente tagliate e alzate le pareti addominali che contengono le budella. UN FIORE VIENE SVENTRATO, PETALI DI CARNE ROSA TEA si schiudono. Carne di rosa tea, vischioso color rosso-uovo. Sostanze simili al tuorlo, giallo-polline, mielose. La sacca dello stomaco diventa visibile. Gli intestini tremolano molli, fumanti, caldi e gelatinosi, come muscoli guizzanti, facilmente vulnerabili come l’epidermide su un liquido denso, sulla quale si versano delle gocce di succo di limone. Sussulto di nervi, color garofano. In questo bouquet di fiori composto di carne viene compresa tutta la gamma dei colori, da quelli della lingerie rossa, dalle cromie rosate e ancora tiepide del corpo di donna, alle tonalità viola azzurro, violetto e ciclamino fino ai toni verdi. Gli intestini pesanti e colmi di escrementi cadono mollemente umidi a terra mentre il toro viene issato. Dal corpo viene strappata la carne dei polmoni, colorata di rosso cinabro vivo, inumidito dal sangue pompato, arterioso e ossigenato. È come se grandi quantità di tulipani rossi, gladioli e polpa di rosa cadessero dal corpo spaccato per terra. Tutte le cromie dei fiori cadono sul pavimento insieme alle interiora. I colori vengono irradiati dall’interno delle sostanze. Il giocatore partecipa tramite l’osservazione, interiorizza tutto e lo percepisce fino alla interna essenza della sostanza, che è la mutazione oltre il divenire e perire. È semplice- mente bello vedere i nostri organi interni, i polmoni, il cuore, i reni, il fegato, lo stomaco, gli intestini, i vasi sanguigni e la LINFA VITALE del sangue. Sempre di nuovo è il colore che fa sì che gli organi interni risplendano anche se normalmente sono celati alla luce. Similmente accade ai pesci degli abissi, che sono che va al di là della loro visibilità? Il O.M. Theater è una grande festa per gli occhi. 

«Il mangiare condiviso è un’azione simbolica di comunione... tutto quello che è godere, appropriarsi e assimilare è mangiare, o il mangiare è piuttosto nulla più che un appropriarsi. Qualsiasi godimento dello spirito può essere perciò espresso con il cibo. Nell’amicizia ci si nutre per davvero del proprio amico oppure si vive di lui. È un autentico tropo, il voler sostituire il corpo con lo spirito e il voler assaggiare nel corso d’una cena commemorativa la carne d’un amico in ciascun boccone con temeraria, soprasensibile forza d’immaginazione e assaporare il suo sangue in ciascun sorso bevuto. Per il gusto molle dei nostri tempi questo certamente ci pare barbarico – ma chi ci esorta a pensare subito a del sangue e delle carni crudi, deperibili? ... e sono il sangue e la carne davvero qualcosa di così ignobile e ributtante? In verità vi è più dell’oro e dei diamanti, e i tempi non sono più così lontani, nei quali si avranno significati più aulici del corpo organico. 

Chi sa, quale elevato simbolo è il sangue? Proprio il ribrezzo delle componenti organiche permette di condurci verso qualcosa di elegiaco in esse. Rabbrividiamo davanti ad esse come davanti a degli spettri e presagiamo con orrore infantile in questa curiosa commistione un mondo misterioso, che potrebbe essere una vecchia conoscenza. 

Ma per tornare alla cena commemorativa – non si potrebbe pensare, che il nostro amico ora fosse un’entità, la cui carne possa essere pane e il cui sangue vino?»

L’interiorizzazione ha qualcosa di tragico, termina con la morte di colui che viene inglobato. Il metabolismo si svolge in noi in modo irrispettosamente tragico. L’uccisione del Dio è collegata con il fatto, che la sua carne deve essere mangiata e soltanto dopo l’assimilazione, secondo il mito, avviene la risurrezione per tutti noi. La nostra stessa morte è l’inglobamento nella terra e nel mondo circostante, nella creazione che ci contorna. I sensi accesi e in piena funzione, se differenziati e condotti dai pensieri, ci trainano nel mondo, nel nostro evento creativo, nel nostro mistico essere tutt’uno con il creato. Ci conducono verso l’interiorizzazione con l’universo, perché il mondo interiore ed esteriore possano essere anche fisicamente uniti. Da questo deriva la grandezza di un pasto condiviso, l’essere senza tempo della festa dell’eucarestia, dove Dio, simbolo dell’intera creazione, che inizialmente rappresenta per il fedele il mondo esteriore, dona il suo corpo per venire assimilato, affinché l’esterno, e con esso l’essere supremo, possa penetrare nell’io del fedele, che con ciò si apre a sua volta in Dio e nella creazione . Vedere e, soprattutto, utilizzare correttamente i sensi significa volontà di assimilazione del mondo esteriore (nel vero senso della parola) e non vivere da automi nello spazio e nel tempo senza una realtà esperenziale, per non dire addirittura un infelice vegetare. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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