I primi asini pensavano per conto proprio
Vi è una dose di follia nell’arte
contemporanea che corrisponde con l’idea dell’arte stessa o ai
suoi confini. Trasformare la materia, quella più banale, in qualcosa
di diverso, è un sogno che ha accarezzato spesso il Novecento.
Bocchini fa un’operazione apparentemente semplice e maledettamente
complicata da realizzare. Fare del niente un qualcosa. E’ un
processo che riesce raramente, un po’ come l’alchimia o almeno
l’alchimia legata all’arte. La trasmutazione delle banalità in
arte, Duchamp docet ovviamente dall’altezza del suo pissoir,
non è da tutti, proprio perché la tentano in molti. Da questo punto di vista state sicuri
di avere un artista davanti: Francesco Bocchini. Ne ho visti tanti di
tentativi incerti, di buona volontà ridotta alla fine in qualcosa
che sembra arte ed è soltanto una miscela di buone intenzioni e
basta. In più l’artista in questione ha dalla sua il fatto che ci
crede dal di dentro e non dal di fuori. Fa del suo essere un
lattoniere al servizio dell’arte (qualcosa che Lewis Carroll ha
messo nel suo capolavoro) un modo d’essere e non soltanto la
volontà di qualcuno che ha visto, sentito e fatto.Trasformare in altre parole dare una
diversa destinazione d’uso a qualcosa che proprio non era stata
fatta per quello scopo. Le macchine certo, Bocchini alla fine
realizza quella quadratura del cerchio che vogliamo avere dagli
artisti. Non abbiamo voglia di pensare troppo o di dover legger un
libretto d’istruzioni prima di dover capire quello che viene
offerto. Vogliamo semplicità e, in effetti, questo abbiamo dalle
macchine largamente inutili dell’artista. Però nello stesso tempo
c’è qualcosa di semplice che affascina, qualcosa che ci consente
non solo di fare dei dovuti paragoni (Tinguely, il Beaubourg, la
Saint Phalle, etc. ), ma anche di attingere direttamente alla nostra
memoria personale, a quel vissuto che condividiamo con noi stessi, e
sicuramente con tanti altri.Vuol dire che allora Bocchini fa
qualcosa che avremmo voluto fare anche noi, che magari artisti non
siamo ma che avremmo voluto essere. Dare vita all’inanimato, ma
anche dare memoria alla materia , riscattare il silenzio
dell’inorganico. Dare al gioco un senso definitivo e non certamente
legato ad una certa età o ad un tal rimbecillimento da psicofarmaci. E a questo punto bisogna parlare di ciò che abbiamo evocato: le macchine. Bocchini le costruisce con lo stupore di un burattinaio , con la certezza che il mondo meccanico abbia ancora un futuro nonostante l’invadenza del mondo elettronico. Non appartenendo alla generazione di un Gilardi, corteggiatore dell’assoluto moderno perché naturalmente in eterno ritardo sulla tecnologia che verrà, se ne frega dell’elettronica e anima un mondo pullulante di fremiti e di fruscii macchinici. Sarebbe piaciuto ad Angelo Maria Ripellino, perché è un cantore, anche se non lo sa, del mondo mitteleuropeo che va da Vaucanson a Von Kempeler, ma nello stesso tempo possiede la sanguigna praticità romagnola, che non consente di chiedere scusa per le ciambelle non riuscite. Nel senso che è sempre pronto ad assumersene le responsabilità. E non è poco.Cosa vuol dire. Vuol dire che alla fine le macchine di Francesco Bocchini rigorosamente azionate a mano da chi le adopera , hanno relativamente una vita autonoma e condividono l’aleatorietà di tutto il secolo precedente, quella casualità che concede delle pause che dà al tempo il tempo di riflettere o di rassegnarsi. Non ci resta che guardare, e magari di vedere, quello che succede dopo, ma nell’orizzonte delle nostre aspettative. Il lattoniere matto però possiede una verità, quella dell’arte che non fa calcoli, ma che arriva direttamente all’immaginario e alla storia delle persone che gli sono davanti. E quello che è comunque importante è che non vi sono fascinazioni tecnologiche perché alla fine il risultato è sempre quello della pittura, anche se parla attraverso la terza dimensione o attraverso il movimento.L’ hasard, quello di Man Ray e Duchamp, si agita sempre dietro le quinte dell’inconscio. Francesco Bocchini è un surrealista post litteram. Gioca ma fino ad un certo punto, conosce l’arte, tutta l’arte e la letteratura, tutta la letteratura. Nei suoi lavori si riflette molto di più di un arte rassicurante e simpatica. Vi è la possibilità della catastrofe, l’incidente, il naufragio del Pequod. Allora ci sentiamo improvvisamente orfani, abbiamo perduto il comandante e siamo giocattoli nelle mani di un burattinaio scemo. Come un organetto di Barberia che abbia finito la carica, contempliamo il gioco della sopravvivenza. Tocchiamo con gli occhi le tracce della ruggine sugli oggetti, le scritte di un’epoca di felicità, i messaggi che non abbiamo capito allora e che ora sono tempo che passa, onde del mare della memoria che non vuol passare, e che forse vuole salvarci dall’ultimo naufragio.
Valerio Dehò