Museo Nacional De Bellas Artes - La Habana - 24 Marzo - 4 Giugno 2006
Vorrei innanzitutto ringraziare l’amico e artista Abel Herrero e i miei assistenti, Mauro Pettigiani e Francesco Ribuffo, tutti gli amici, i tecnici del Museo Nacional de Bellas Artes che con passione e competenza hanno reso possibile la realizzazione di questa opera. Grazie per l’invito che mi è stato rivolto dal Consejo Nacional de las Artes Plasticas che ho accolto con piacere e che mi ha permesso di mostrare per la prima volta il mio lavoro al pubblico dell’Avana e di offrirlo, assieme a queste mie parole, al giudizio degli artisti di questo bellissimo e umanissimo paese. Grazie alla Fundation Nicolás Guillén e grazie a tutti voi per aver voluto onorare della vostra presenza questa occasione. Desidero dire alcune parole che solo indirettamente parlano di questa opera. Indirettamente perché credo che un’opera non si possa dire con le parole.
Un’opera è sempre un viaggio verso il tutto e verso il nulla, verso il buio che è dentro di noi. Nessuna parola può svelare quel mistero che è la vita profonda di un’opera, l’infinito che è dentro un’immagine.
A proposito di questa opera posso solo parlare della sua forma visibile, premettendo che un’opera non è mai un gesto di buona educazione, nè tranquillizante né ottimista, ma un gesto duro, radicale, estremo.
E’ un’opera fatta di cenere, di aria, di luce, di fuoco. Fuoco che è luce e tragedia dentro lo sguardo. E’ un’opera delicata come le ali di una farfalla. Farfalla in Greco si traduce psyché e psyché significa anche anima. Un’opera immateriale, fatta di silenzio e con la materia del tempo. Un’opera fatta di parole bruciate. Tecnicamente è realizzata nel modo seguente. Si è trattato di costruire una realtà, distruggere questa realtà per realizzare una nuova realtà. Un’allegoria, una metafora, un percorso da una dimensione fisica ad una dimensione metafisica.
Mi piace osservare il tempo che lascia la sua impronta, che sia lui a disegnare con la sua sperduta immaginazione. Lavorare con tutto ciò che si disperde, che è impalpabile, imprendibile, con quello che c’è di più duraturo: l’ombra, la cenere, la polvere. Fare dell’ombra il vero e non un riflesso.
Vorrei ora sottolineare una cosa; l’importanza che ha per me, in questa opera, lo spazio.
La realtà di un opera comincia aldilà di ciò che di essa è visibile.
Quale spazio e quale senso cerca oggi un’opera?
Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi?
Rivolgo queste domande perché porsi il problema dello spazio dell’opera significa porsi non solo il problema di uno spazio formale, estetico ma di uno spazio etico, politico dentro il quale l’opera andrà a situarsi. L’opera, come l’artista, è spesso prigioniera di un mondo che non le è amico e in questo mondo lotta per difendere non solo uno spazio materiale ma uno spazio spirituale, quell´ attimo assoluto che realizza la sua libertà.
Provengo da un Paese, da una formazione, da una esperienza artistica e da una forma di società diverse. Quello che nelle mie parole potrà sembrare distante, forse paradossale, estraneo alla vostra esperienza, oppure un limite, presuppone questa consapevolezza. Parlo soprattutto di ció che io vivo. Ho voluto, nel titolo di questa opera, dare un particolare accento alla parola silenzio. Quando parlo di silenzio non intendo il silenzio della mia voce, un silenzio rinunciatario, ma un silenzio dentro la forma della mia opera. Parlo del silenzio come di una materia.
Il silenzio lo considero una presenza ed un gesto estetico oggi necessari all’interno di un discorso sull’arte e, anche se potrà sembrare un paradosso, un modo di assumere una posizione, una reazione a quel linguaggio che fà del clamore, del gratuito e della superficialità il suo obbiettivo artistico. Il silenzio lo considero quindi un segno di fermezza perché silenzio non significa solo silenzio ma significa anche non concedersi e non concedere nulla.
C’è l’esigenza che l’arte di oggi, in gran parte asservita alla moda e al mercato , esca da molte ambiguità e compromessi.
Invece di attardarsi attorno a obsolete formule stilistiche, a mode da rincorrere, si dovrebbe prendere coscienza di una nostra globale condizione tragica e sentirci piuttosto come condannati al rogo che chiamano attraverso le fiamme.
Questo asservimento credo sia principalmente alla base della demoralizzazione attuale e riguarda, appunto, una forma di cultura che si sottrae al preciso dovere di essere tale. Una cultura che non coincide con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita.
Dico questo anche perché, invece di identificarsi in una cultura, che definirei dell´ ottimismo, occorrerebbe riflettere e prendere coscienza, ad esempio, che il mondo ha fame e che non si preoccupa di una sedicente cultura.
La cosa più urgente non dovrebbe essere dunque quella di rincorrere una qualsiasi moda artistica o quella cultura dell’effimero la cui esistenza, per usare le parole di Antonin Artaud, “non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e dall´ angoscia della fame“, ma estrarre da ciò che crediamo sia davvero e profondamente la cultura o l’arte, idee la cui intensità e forza siano pari a quella della fame.
Per un artista l’arte, quando é vissuta con veritá, è l’unica, anche se silenziosa, forma di esistenza e di resistenza.
Per la società, per quella cultura dell’ effimero di cui parlavo, l’arte che amiamo, che difendiamo e attraverso la quale ci opponiamo, cosi come la letteratura o la poesia, sono parole spesso dimenticate. Sono problematiche, pongono domande, non danno risposte, offrono solo dubbi. Per chi ha una responsabilità politica e quindi etica, tenerne conto, difenderle come un dovere e sentirle come un bene, significa accettare un rischio, nella consapevolezza che un bene spirituale è ricchezza, che “cultura” è essenza di benessere.
Noi abbiamo bisogno di questa arte.
C’è un’eredità spirituale che non deve essere dissipata. E anche un dovere e una responsabilità che gli artisti devono assumersi. Non smarrire il senso profondo del loro passato storico, artistico, e morale, perché dentro questa dignitá é scritto tutto e solo quello di cui abbiamo veramente bisogno: una verità. L’arte deve ritornare ad essere arte, tornare a parlare al cuore dell’uomo.
Nell’infanzia del tempo l’arte fu preghiera. Poco è rimasto di quella infinita bellezza.
Ora non siamo più capaci nemmeno di pregare. Camminiamo come ciechi erranti tra la rovine.
Abbiamo bisogno di ricostruire.
Claudio Parmiggiani, L’Avana, 24 marzo 2006