NOVELLI PERILLI SCIALOJA TWOMBLY

1966

Che Roma sia in asse piuttosto con New York, mentre Milano è in asse piuttosto con il centro-Europa, non è gratuito affermarlo; o almeno quest'asse Roma-New York ha funzionato fino a che non è intervenuta, a complicare il discorso, la vicenda pop, un po' con i suoi strascichi di presunto (speriamo) sciovinismo, un po' con la spregiudicatezza delle sue proposte che ha urtato la sensibilità puristica di molti.

Ma a Roma (e qui si può valutare anche l'orientamento dell'asse) lo stesso « informale » è molto diffusamente considerato bassa reazione al « moderno », e sacrilego viene giudicato l'accostamento che i critici han fatto dello « informale » europeo all'action painting americana quali fenomeni aventi una comune radice storica e culturale, anzi rientranti entrambi in una categoria dell'informale in senso lato.

Le idiosincrasie degli artisti non vanno discusse, ma vanno lette come sintomi della loro cultura e della loro personalità creativa; vanno valutate soprattutto per le scelte che presuppongono. Questa opzione di Roma per New York, o diciamo meglio per l'action painting, o meglio ancora per il gesto e il segno piuttosto che per la materia (che pure si possono vedere come categorie complementari), si motiva anche con una radicale esigenza di chiarezza, di inquadramento mentale, di preciso, lineare riscontro ideologico che ha caratterizzato l'avanguardia « astratta » romana (fino, direi, da Prampolini).

Il gesto è scansione, è lineamento, è traiettoria, è pulizia estrema, anche eleganza, è l'affiorare dell'impulso allo stadio del cosciente, dove l'impulso si incontra con il ragionamento, con l'idea e, se si vuole, con il sofisma: è il Chiaro, insomma, è modernità e civiltà. La materia invece è sedimento viscerale, è il rientrare degli impulsi nella placenta dell'Oscuro, è libidine, è irrazionalismo mistico, è sagrestia, è Fautrier (odiatissimo), è Sironi, è « novecento » (e, naturalmente, fascismo). Infine, è un modo di pensare: discutibilissimo, ma che caratterizza scelte e rifiuti, indispensabili da comprendere preliminarmente anche per accedere agli artisti qui presenti.

E tornando all'America (degli anni cinquanta), è di lì che Scialoja attraverso una sottilissima speculazione sui principi della pittura di azione, sul valore non spaziale ma temporale del gesto, prese, a suo tempo, le mosse. L'« impronta » di Scialoja è il gesto che medita se stesso, che si riconosce e si assesta in una dimensione a lui propria; il puro segno è gesto irriflesso, l'impronta è gesto riflesso, mentalmente organizzato, oggettivato, e può essere anche, infatti, impronta di un oggetto (ma un oggetto incorporeo, trasparente, perché designa il puro ritmo del tempo, crea un'astrazione, infine, ed è agli antipodi dell'oggetto neo-dada che afferma la concretezza di uno spazio puramente topologico, « top » come ora si dice).

Ed è di lì, dall'America, che fisicamente ci viene Twombly, sortendo da una costola dell'action painting, e preferendo, direi, la ricerca solitaria, assorta, spaesata di un'autenticità all'europa al successo forse più clamoroso che le sue qualità (eccezionali) gli avrebbero garantito se avesse atteso, al fianco di Rauschenberg e di Johns, l'onda montante dell'offensiva U.S.A. Ma Twombly non ha resistito al richiamo della storia, puro richiamo esistenziale, ormai: labili valori, incertamente fissati, con gli scarabocchi dei passanti, sulle vecchie mura di Roma. Passando attraverso la poetica (europea, brute) del « muro », il suo segnare, pur conservando l'ingenuità e l'incredibile freschezza dell'americano, ha sprigionato una pateticità nostrana, lontanamente alla Mafai, o il senso, appunto, di una labilità felice, quasi alla De Pisis.

Perilli e Novelli, su posizioni culturali molto affini verso il 1957-58 hanno optato, più che per l'azione e per il gesto, per il segno: è vero che anche il gesto se risolve nel segno, ma ci può essere un segno meno gestuale, più disegnato, o forse sarebbe il caso di dire, sia per Novelli che per Perilli, più « scritto ». Conosco Perilli da una quindicina d’anni e fin da principio mi parlava di automatismo (la pittura d’azione, non gli ha riproposto che un filone di ricerca già a lui presente culturalmente in modo chiaro e radicato), di dadaismo, di Klee. Novelli ha una cultura i cui ingredienti sono nella sostanza, ancor oggi, fortemente consimili; direi però che nel quadro di Novelli c’è meno il presupposto della « lettura lenta »; c’è si un frazionamento di segni e di sillabe, ma un estro pallido e un po’ folle circola repentino, come una scarica elettrica su un imbroglio di fili.

Se, infine, dovessi indicare una cosa che accomuni questi quattro artisti, direi che è l’idea dell’« azione » pittorica ma privata della sua immediatezza e stemperata invece in un clima de « speculazione », di « cultura » all’europea, di volontà d’integrazione dei « valori ». Valori di civiltà, già saputi, non da scoprire, ma da adeguare, da riprendere: subendone candidamente l’ascendente, Twombly; sentendone il peso e l’orgoglio, Novelli, Perilli, Scialoja, fino alla determinazione sicura di fissare un’immagine-tipo, dimostrativa; di controllare la ricerca, di condurla linearmente, senza sbalzi irrazionali, eliminando l’inquietudine del poeta. Quell’inquietudine che invece, pur senza apparire, ogni tanto visita Twombly e gli fa cadere i colorati fili di mano.

Maurizio Calvesi

OPMET


Questi pittori lavorano nella stessa direzione, e potremmo definirla epifania del tempo. Tendono a fissare nello spazio chiuso del quadro una presenza continua, vogliono imprigionare gli attimi fuggenti, ritrovare le temps perdu e bloccare il flusso in un infinito-presente, e inchiodare l’altra-faccia del tempo in una fase che duri il momento dell’esecuzione di un quadro.

Twombly, Scialoja, Novelli, Perilli: una quadri-cronia, quattro pittori che hanno estratto dall’Informale il valore della temporalità. Ovvio, che la loro musica sia sincronizzata su «tempi» diversi: l’adagio, la fuga, il valzer, l’allegro. E sono diverse le tonalità: l’elegia, la commedia, il balletto, la satira. E il tempo prende una struttura attraverso impulsi diversi: si va dalla memoria alla sequenza scenica, dal diario al racconto.

Twombly: il tempo della memoria. E’ da proporre la sua vita-parallela con Keats, esule a Roma. La Caduta di Iperione l’ha scritta Keats, o l’ha dipinta Twombly, e a chi appartiene l’Ode alla malinconia? Li accomuna il senso acre della nostalgia: una Grecia sempre più lontana, una giovinezza sempre meno vicina, una mitologia sempre meglio sognata. Caduta l’euforia romantica dell’action-painting, Twombly, come Keats, approda all’elegia (greca). Il bianco di fondo dei suoi quadri è il bianco della pagina bianca, il vuoto del non-essere a cui si sovrappone la testimonianza dell’esistenza dell’homo-pictor. Ma Twombly scrive anche nel cielo, indaga i piccoli segreti delle costellazioni, fa un reportage sul passato e sul lontano con l’atteggiamento d’un inguaribile egoista. Scheda la sua memoria affiorante a barlumi, ma alla fine del processo ci accorgiamo che la tela non è un muro ma uno specchio d’acqua. E il quadro riflette la smania di bloccare un tempo di vetro, sempre sul punto di infrangersi. Twombly traccia le sue tenui impronte, affida sentimenti e risentimenti a qualcosa che li accoglie solo per un attimo: dimostra che si può scrivere anche sull’acqua.

Scialoja: il tempo scenico. Si è parlato del metodo di Scialoja (cioè l’«impronta») e del sistema (cioè l’effetto seriale): non si è chiarito il valore iconologico di questa ricerca. Il motivo replicato a liste riordina l’Informale, è insieme eccezione e regola, materia e forma. Sentiamo in queste lunghe zone accostate il peso degli «spaccati» teatrali: e il teatro, creato dall’uomo a sua immagine e somiglianza, è l’unico mondo in cui si incastrano gesto e contemplazione, arte e vita vera. Sono liriche o drammatiche queste impronte? Rispondiamo che sono «teatrali»: infatti la scena più drammatica può svolgersi in un verde giardino, la più allegra può nascere tra quinte buie; proprio perché non è l’ambiente, non sono le figure a fare una tragedia o una commedia, ma l’unione di ambiente e figure, l’alternativa di spazio e sentimento. Leggendo in prospettiva uno scritto di Scialoja del ’49 ritroviamo il suo interesse per un tempo scenico: il «ritmo», la «terrestre impronta», il «gesto», la «danza», i «volumi ridotti a scaglie». E’ riuscito a realizzare sulla tela quanto auspicava per la scena: Scialoja, ovvero il successo dell’utopia.

Novelli: il tempo del diario. Non intimismo ma rapporto con la vita (quella che pulsa nei titoli dei quotidiani): un diario di lavoro che fissa le mille piccole scoperte linguistiche, la rivelazione del sesso, il gioco del giocare. Un diario giorno per giorno delle proprie idee e anche dell’assenza di idee: adesione alla realtà quotidiana (mentre i surrealisti la rifiutavano); e forse «manoscritto nella bottiglia», un messaggio destinato a giorni prossimi. Prende possesso, con impulso magico, dei frammenti della sua «antologia del possibile». Il problema è semantico, anche se Novelli non è uno studioso ma un collezionista di segni. Una docta-ignorantia: sforzarsi di sapere tutto per dimenticare subito dopo, essere il «buon selvaggio» al corrente di ogni segreto della società. Sarà pure il labirinto l’immagine del «profondo» alla base di questa pittura, o sarà il «gioco dell’oca», una struttura che racchiude silenziosamente la possibilità di vincere e perdere? Si equilibrano scienza e fantascienza, racconto «novissimo» e romanzo-fiume, classicismo (la bianca Grecia) e sottile romanticismo, tempo sprecato e tempo ritrovato.

Perilli: il tempo del racconto. Le scene della memoria, del sogno, della cronaca perfino, si inquadrano in zone che ricordano le strips dei fumetti, con un rapporto tra parti colorate e disegnate, con un sottile equilibrio tra struttura e capriccio. Il suo quadro «novissimo» diventa un libro di nuovo genere: che va letto tutto allo stesso momento. Come un «calligramme», che è immagine disegnata e allo stesso tempo raccontada, presentazione e rappresentazione. Come una serie di fotogrammi filmici, ma senza la fissità e la «necessità» temporale del cinema che deve proiettare in un certo tempo un certo numero di immagini di un certo formato. Perilli ci dà un film rallentato o accelerato, proprio come ci dà la trama d’un romanzo complicata o semplificata. E cioè, ancora una volta, dichiara l’indipendenza dell’arte figurativa: che non è film, che non è romanzo. E il circolo si è chiuso: siamo tornati al fumetto (la scelta significante di Perilli), il quale sfrutta i principii di cinema e letteratura non essendo nessuna delle due cose. Un «genere» nuovo e indipendente, che occupa uno spazio intermedio tra vita e arte.

Testo di Maurizio Fagiolo